Estate 2012, lettera di licenziamento. E poi? Tre leggi poco sorelle

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 28 Ottobre 2011 - 15:30 OLTRE 6 MESI FA

foto Lapresse

ROMA – Le promesse fatte da Berlusconi all’Europa in tema di licenziamenti hanno immediatamente scatenato le ire di sindacati e opposizioni. Ma cosa ha realmente promesso il premier all’Europa, cosa accadrà in Italia se, e quando, le riforme in materia di diritto del lavoro saranno introdotte? La Lettera all’Europa dice: entro maggio 2012, dunque dall’estate dell’anno prossimo se ti licenzio o ti licenziano, allora cosa succede? Sempre che succeda… Sul tema c’è molta confusione ma in realtà i possibili scenari sono 3, alcuni più “dolci” e altri più “hard”. Alcuni che trattano il tema in modo organico, come chiede l’Europa stessa, rendendo più agile il mercato del lavoro non solo in uscita, ma anche in entrata, mentre altri si preoccupano principalmente di tagliare.

Una cosa però va chiarita subito: la riforma, ammesso e non concesso che si faccia, riguarderà in realtà sì e no la metà dei lavoratori italiani, quelli delle aziende con più di 15 dipendenti. Che sono pochissime, come rileva l’Istat. Su un totale di 4,4 milioni di imprese, infatti, ben 4,1 hanno meno di 10 dipendenti per un totale di 8 milioni di addetti e altre 145 mila stanno tra i 10 e i 20 lavoratori con 1,8 milioni di dipendenti. Nelle piccole l’articolo 18 non vale e si può licenziare indennizzando il lavoratore.

Le novità quindi, se e quando ci saranno, riguarderanno gli altri, quelli che oggi non possono essere licenziati. Le tre possibili soluzioni non sono nuovissime, ed una viene anche dal centro sinistra. Partiamo da questa, presentata l’11 novembre 2009 dal senatore Pietro Ichino. È la formula definita “Flex Security”, che prende spunto dal sistema danese, e conferisce all’impresa il diritto di sostituire il reintegro in caso di licenziamento illegittimo con un’indennità economica, opzione che oggi è esercitabile solo dal lavoratore. Si esplica con una sorta di maxi sussidio che arriva al 90% della retribuzione al primo anno, 80% al secondo, e 70% al terzo, e scadenza variabile a seconda dell’anzianità di servizio. Ipotesi che alla possibilità di licenziare affiancherebbe garanzie economiche per i lavoratori.

La seconda possibilità è la strada indicata dallo “Statuto dei lavori” presentato un anno fa dal ministro Maurizio Sacconi attraverso una legge delega che traccia linee guida per emanare decreti con finalità specifiche. Punta a “razionalizzare e semplificare riducendo almeno del 50% la normativa vigente, anche mediante abrogazione oltre a identificare un nucleo di principi universali applicabili a tutti i rapporti”. Una formula drastica.

La terza via è quella infine indicata dal radicale Marco Beltrandi, che propone di alzare la soglia di applicazione della reintegrazione dalla cosiddetta tutela reale da 15 a 30 dipendenti, numero entro il quale l’impresa può scegliere tra reintegro o indennità in caso di licenziamento illegittimo. Così ci sarebbe un importante allargamento dell’ambito di applicazione di un regime più flessibile.

Quale che sarà la strada scelta, sempre che la riforma si faccia, va ricordato che già in passato ci furono tentativi di modificare le norme sui licenziamenti, tutti più o meno falliti. Nel 2001 ci provò l’allora ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano, che suggeriva di modificare l’articolo 18 dando la possibilità alle imprese, ma solo sulle future assunzioni, di licenziare i lavoratori per motivi economici, dietro indennizzo. Così, secondo il ministro, si sarebbero incentivate le assunzioni dei giovani.

Dopo tre mesi, il governo, su proposta dell’allora ministro del Lavoro Roberto Maroni, approvò il disegno di legge delega 848, che prevedeva la sospensione delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in tre casi: aziende che escono dal nero; che, assumendo, superano i 15 dipendenti; che stabilizzano i contratti a termine. La sospensione era sperimentale per 4 anni. Il 23 marzo Sergio Cofferati guidò una grandissima manifestazione di protesta a Roma, con comizio finale al Circo Massimo. Che portò a una mezza ritirata del governo, col trasferimento della parte di delega sull’articolo 18 in un disegno di legge, l’848 bis, che non verrà mai approvato.

Nel 2009 ancora un governo Berlusconi provò ad intervenire sui licenziamenti, questa volta senza modificare direttamente l’articolo 18. Lo strumento fu il “collegato lavoro” alla Finanziaria, che al termine di un lunghissimo iter parlamentare inglobò anche la “clausola compromissoria“, con cui datore di lavoro e dipendente, all’atto dell’assunzione, si impegnano a demandare a un arbitro privato, anziché al giudice, tutte le controversie, licenziamenti inclusi. Ma questa volta fu Giorgio Napolitano a intervenire, rinviando la legge alle Camere con un messaggio. Il lavoratore che deve essere assunto, osserva il presidente della Repubblica, è in una condizione di “massima debolezza” tale da indurlo ad accettare la clausola compromissoria, e questo non va bene. A Sacconi, questa volta ministro, non resta che togliere dalla clausola i licenziamenti.

Sacconi che però non si arrese e che ha presentato poi lo “Statuto dei lavori” che rappresenta ora una delle possibili riforme sul tema. Si riuscirà questa volta a modificare la legislazione in tema di licenziamenti, opposizioni e sindacati si batteranno come in passato, ma questa volta c’è di nuovo il pressing dell’Europa.