Mistero dei miliardi europei mai spesi. In Irlanda ci fanno le “strade italiane”

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 3 Agosto 2015 - 13:08 OLTRE 6 MESI FA
Foto d'archivio

Foto d’archivio

ROMA – Puntuale come gli allarmi-afa estivi e il maltempo invernale, anche quest’anno è iniziata l’ormai stanca litania dei fondi europei  assegnati all’Italia e che l’Italia non spende. Miliardi, quest’anno dodici, che rischiano di andare buttati e tornare a Bruxelles che poi li assegna e destina qualcun altro. In Irlanda coi fondi europei per l’Italia ci hanno fatto le “italian’s highways”, le “strade italiane”. Le chiamano così a ricordare a loro stessi e a noi quanto si possa essere autolesionisti.

A rischio “evaporazione” sono ora, come riportano le ultime cronache, circa 12 miliardi di euro che fanno parte del programma 2007-2013 e che l’Italia deve ancora certificare. La questione è però molto più antica, diremmo quasi come i fondi stessi, e per quanto sorprendente in un Paese campione nella particolare specialità dell’acquisizione e della spesa del denaro pubblico, altrettanto antica è anche l’incapacità di spendere quello europeo.

Ma perché non siamo, perché l’Italia non è capace di spendere quanto potrebbe dei fondi europei? Le ragioni sono diverse, ma riassumibili nei concetti di clientelismo e mancanza di progettualità. Concetti e ragioni che si mescolano nel combinato disposto che, tanto per fare un esempio, ha consentito in Irlanda la costruzione delle ‘Italian highways’, le strade realizzate con il denaro che sarebbe spettato a noi, se fossimo stati capaci di utilizzarlo.

Già, se fossimo stati capaci, ma non lo siamo. Non siamo stati e non siamo ancora capaci di spendere i fondi perché l’Europa finanzia progetti, apparentemente una banalità, ma in realtà già un primo ostacolo perché i progetti bisogna pensarli e scriverli per presentarli. E i progetti che l’Italia presenta sono sempre o quasi striminziti, improntati cioè, oltre che al minimo sforzo, anche e soprattutto alla distribuzione a pioggia dei fondi. Attenti quindi più al destinatario che alla destinazione. In altre parole presentiamo per lo più progetti piccoli, da poche migliaia o decine di migliaia di euro, utilissimi per dare fondi alle varie realtà sociali ed elettorali.

Dimensione dei progetti quindi quale primo ostacolo per l’accesso ai fondi. Ma al “nanismo” progettuale concorre non solo la natura clientelare e l’occhio elettorale delle regioni (i centri che si devono occupare della spesa), ma anche la scarsa per non dire inesistente capacità progettuale e abitudine politica di chi governa ed amministra che sembra nutrire una reale idiosincrasia nei confronti di progetti di ampio respiro e lunga realizzazione, utili certo alla società ma poco ‘spendibili’ in termini elettorali. E non è per questo un caso che, tra le voci di spesa italiana dei fondi Ue, a far la parte del leone sia quella destinata alla formazione.

Secondo ostacolo per la spesa dei soldi europei, ma non certo per importanza, è il co-finanziamento. Qui la ragione delle difficoltà è di quasi immediata comprensione. L’Europa infatti eroga una serie di fondi a fronte di un finanziamento locale (in diversi casi anche corrispondente ad una piccola percentuale), e quindi italiano. Spendere quindi per avere degli altri denari, ma l’investire sul futuro, ancor più quando costa qualcosa, non è nelle corde degli amministratori nostrani.

Ragioni ed ostacoli che si traducono in mancate opportunità che, come scrive Enrico Marro sul Corriere della Sera, si potrebbero recuperare ma solo con una sorta di tour de force. “In sette mesi, infatti, bisognerebbe fare quello che non si è fatto in anni, cioè rendicontare spese per 12 miliardi, di cui 9,8 nel Mezzogiorno, 7 dei quali dovrebbero essere spesi dalle Regioni. I fondi più a rischio sono quelli che al 31 maggio avevano un livello di spesa certificata inferiore al 50%. In particolare: 370 milioni del Pon (Piano operativo nazionale) Reti e mobilità, destinato alle grandi infrastrutture nel Sud, ma qui i collaboratori di Graziano Delrio assicurano che si sta recuperando; 277 milioni del Pon Energia; 330 milioni del Fesr (Fondo europeo sviluppo regionale) Sicilia e 265 milioni del Fesr Calabria. A complicare il tutto ci sono i vincoli di finanza pubblica. Per esempio, se Molise, Puglia, Calabria e Campania tirassero fuori tutti i cofinanziamenti necessari a non perdere i fondi Ue, dovrebbero impegnare così il 60% della spesa loro consentita nel 2015 dal patto di Stabilità interno e col restante 40% provvedere tutte le altre spese. Ecco perché il governo vorrebbe ottenere da Bruxelles maggior flessibilità sul computo del cofinanziamento”.

Riassumiamo: il sistema Italia non spende i fondi europei all’Italia perché il comune sentire italiano (della politica, degli amministratori, della pubblica opinione, delle lobby e dei gruppi di interesse) interpreta quei fondi come mancia da distribuire a quanto più “territorio” e soggetti possibili. Nessuno in realtà vuole investire quei soldi in attività e progetti di sviluppo economico. Li si vuole come retribuzione di fatto per clientele e/o come ammortizzatori sociali e/o come liquidità elettorale. Anni di questa cultura hanno desertificato la competenza progettuale e allevato una burocrazia dedita alla distribuzione, anzi al centellinare la distribuzione come manifestazione del suo potere. Aggiungere ruberie e sovra costi imposti da “caste” varie ed ecco il rosario di ragione, la catena di ragioni per cui il paese, il sistema paese che più campa di pubblico denaro, quando gli arrivano in cassa i miliardi europei si trasforma e trasfigura in un lancio di sacchi di farina da un elicottero: i più giungono a terra sfondati.