L’invasione dei mamma e papà: a scuola, all’università…a letto?

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 23 Aprile 2013 - 13:13| Aggiornato il 10 Febbraio 2023 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Erano ottomila ieri, 22 aprile, a Roma. Erano lì per il test di ammissione alla facoltà di medicina dell’università Cattolica. Erano ottomila ma sembravano il doppio, il triplo, sedicimila o ventiquattromila. E lo erano. Perché insieme agli aspiranti dottori c’erano mamma e spesso anche papà. Accorsi in massa i genitori per accompagnare i loro pargoli cresciutelli alquanto, per esser loro vicini nel momento del bisogno, anzi della prova, anzi del contatto con il mondo esterno, per non tagliare mai quel cordone ombelicale che ci ha fatto diventare il Paese dei mammoni.

“L’ho accompagnato perché veniamo da lontano” o “perché qui non si trova mai parcheggio”, si nascondono, o provano a nascondere sovente i genitori italiani, dietro simili giustificazioni, quello che è in realtà il motivo vero, reale e unico per cui si presentano insieme ai figli al test d’ammissione per l’università: perché siamo un popolo iperprotettivo, un popolo affetto dalla sindrome da chioccia unita a quella del distacco. Le mamme italiane mai e poi mai manderebbero il loro cucciolo da solo ad affrontare la vita. Sono pronte a gettarsi al collo della maestra che alle elementari ha dato un brutto voto al figlio e non vedono l’ora di consolarlo quando una donna lo deluderà.

Un modus operandi che, forse corretto nei primi anni di vita, necessiterebbe di aggiornamenti durante la crescita del rampollo. Ma così non va, almeno in Italia. Poco conta che il “ragazzo” abbia 3 o 30 anni, le mamme sono sempre lì, spesso se non accompagnate almeno supportate dal papà. Accorrono al test per l’università, con figli quindi almeno per l’anagrafe maggiorenni, con lo stesso spirito con cui sono andate a vedere il saggio di danza o la prima gara di nuoto tre lustri prima. Accompagnando quello che ai loro occhi è rimane un bambino.

Bambino che a sua volta si sente tale e dei genitori chiede e continua a chiedere la protezione e l’intercessione. Anche gli aspiranti dottori, come i loro colleghi aspiranti avvocati o qualsiasi altra cosa, sono infatti ben felici che mamma e papà li abbiano accompagnati. Anzi sono spesso loro stessi ad averlo suggerito, bisognosi come sono vista l’educazione ricevuta, della spalla paterna che possa proteggerli. Un deficit di autonomia che alimenta se stesso in un circolo vizioso in cui mamme e papà dall’aver cominciato a prendersela con gli insegnanti severi finiranno con l’accompagnare i loro piccoli anche in ufficio.

Non accade però lo stesso altrove. Negli altri paesi i bambini vanno a scuola da soli sin da piccoli, ben prima dell’università, e a sedici o diciotto anni vanno via di casa per studiare. Realtà tipiche delle culture anglosassoni forse irriproducibili per noi latini. Eppure, anche all’interno dell’insieme dei popoli a noi culturalmente più affini dal punto di vista della famiglia, noi italiani siamo particolarmente restii all’idea di separarci dalla nostra parole, sia pure per un semplice test. E allo stesso modo, inevitabilmente, i nostri figli diventano particolarmente restii all’idea di lasciare il nido. Difficoltà reali e concrete è vero rendono spesso impraticabile la separazione genitori figli e la realizzazione dell’autonomia di questi ultimi, ma a queste ancor più spesso si sommano degli ostacoli culturali.