Egregio signore…licenziato: dalla lettera al conciliatore al Tribunale

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 26 Marzo 2012 - 15:14 OLTRE 6 MESI FA

Lapresse

ROMA – “Egregio signor Rossi, lei è licenziato”. Magari saranno meno drastiche, ma potrebbero suonare più o meno così le lettere di licenziamento figlie del nuovo articolo 18. Ma cosa accadrà ai lavoratori che perderanno il posto, nella pratica, se la riforma del mercato del lavoro sarà legge? Sempre che si tratti di licenziamento “economico”, la fattispecie di interruzione del rapporto di lavoro che nella bozza del governo subirà le modifiche più grandi, si passerà prima per una fase conciliatoria, obbligatoria. Se questa fallirà si andrà da un giudice e, alla fine, il licenziato se ne andrà a casa con più o meno soldi in tasca.

Appare meno semplice e meno immediato di quanto previsto, quantomeno nella pratica, il “nuovo” licenziamento economico. Nulla è ancora definitivo ma, dal documento varato dal governo Monti, emergono modalità pensate in parte per limitare i possibili abusi, come chiesto dalla Cisl, e in parte, consapevolmente o meno, indirizzate a far passare anche questo tipo di licenziamento per i tribunali, come chiedono in molti e come la Fornero non vorrebbe.

Con la riforma dell’articolo 18 i licenziamenti discriminatori e disciplinari subirebbero poche o nessuna modifica. Quello che verrebbe rivoluzionato è invece quello economico, slegato da ragioni di crisi aziendale e, anche quando ingiusto, senza possibilità di reintegro per il lavoratore. Una qualsiasi azienda potrebbe infatti decidere di licenziare un dipendente non perché in difficoltà economica, ma semplicemente perché il suo lavoro non è più utile economicamente. Il Corriere della Sera fa l’esempio di un centralinista licenziato perché sostituito da un software. In un caso come questo il licenziamento, oggi impossibile, sarà possibile. A delle condizioni però.

Innanzitutto l’azienda che vorrà cacciare qualcuno dovrà, preventivamente, avvertire la direzione territoriale del lavoro che avrà, a quel punto, una settimana di tempo per organizzare una conciliazione. Il datore di lavoro presenterà alla direzione territoriale del lavoro una richiesta che sarà trasmessa al lavoratore, dichiarando l’intenzione di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spiegando le ragioni e le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore. Entro il termine perentorio di 7 giorni la direzione del lavoro convocherà le parti che potranno essere assistite dalle rispettive associazioni di rappresentanza.

Inizierà a questo punto il confronto in cui l’azienda dovrà dimostrare che non esiste alternativa all’indennizzo e il lavoratore cercherà di sostenere le ragioni per cui il suo licenziamento è infondato, indicando magari opzioni alternative di ricollocamento. Il testo della riforma sottolinea che il comportamento delle parti davanti alla commissione di conciliazione sarà registrato in un verbale e consegnato al giudice nel caso in cui la conciliazione dovesse fallire. Solo al termine della fase conciliatoria il datore di lavoro potrà poi mandare la temuta lettera di licenziamento. A questo punto il lavoratore avrà a disposizione 60 giorni di tempo per impugnarla (basta una lettera) e 270 giorni (dal ricorso) per depositare l’impugnazione.

Comincerà così la fase “giudiziale”. In mancanza di accordo sarà infatti il giudice a dover stabilire l’entità dell’indennizzo, variabile tra 15 e 27 mensilità. Ma al giudice si potrà ricorrere anche perché il licenziato ritiene di non essere stato cacciato per cause economiche, ma per ragioni discriminatorie o disciplinari. Mentre nel primo caso il giudice non può infatti sindacare la validità delle ragioni dell’azienda, ma solo stabilire l’entità dell’indennizzo, negli altri due casi per il lavoratore si aprirebbero le porte alla possibilità del reintegro, qualora il tribunale gli desse ragione.

Questa situazione lascia prevedere che molti, se non tutti i licenziamenti, finiranno in aula di tribunale. Difficile infatti che, ove anche solo lontanamente possibile, non si tenti la strada della “trasformazione” del licenziamento da economico ad altro. Presumibile, d’altra parte, pensare che le aziende di fronte allo spauracchio giudice e reintegro, offrano in sede conciliatoria indennizzi alti. Cosa che però non scoraggerà certo chi può dal rifiutare l’offerta. In molti, Pd in testa, premono perché tutto passi dalla strada tribunali. Principio che Elsa Fornero rifiuta ma che la bozza non delude del tutto.

A questo punto il signor Rossi licenziato, escludendo la possibilità che il giudice ritenga il suo licenziamento non economico, aspetterà insieme al suo ormai ex datore di lavoro che il tribunale stabilisca l’entità dell’indennizzo. Entità che sarà stabilita in base a criteri come le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio, le iniziative che il lavoratore ha assunto per cercare un nuovo posto di lavoro e il comportamento delle parti nella procedura di conciliazione. Decisione a cui, entrambe le parti, potranno ovviamente presentare ricorso.