Razzismo, tutti (o quasi) nell’amigdala, la “casa” dell’antica paura del diverso

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 25 Luglio 2013 - 05:30 OLTRE 6 MESI FA

Razzismo, tutti (o quasi) nell'amigdala, la "casa" dell'antica paura del diversoROMA – “Non sono io che sono razzista, sono loro che sono neri!”. E invece no. Siamo noi, bianchi, ad essere razzisti, nell’amigdala. In quella porzione di cervello dove si conservano gli istinti più antichi, le reazioni puramente emozionali e dove la logica fatica ad entrare, custodiamo ancora il retaggio di un disgusto, una paura inconscia e istintiva nei confronti del diverso. Un sentimento, un campanello di allarme nato per difesa, difesa dal nemico come dal cibo avariato ma che, nei secoli, si è conservato e ora rappresenta la parte innata del razzismo.

Vittorio Lingiardi, in un articolo apparso sul Sole 24 Ore, racconta di come gli scienziati siano riusciti a studiare, in qualche modo persino a fotografare quella “porzione” di razzismo che non deriva direttamente o indirettamente da fattori sociali o culturali, o meglio di non cultura.

“In collaborazione con gli psicologi sociali, da alcuni anni i neuroscienziati stanno cercando di capire come gli umani percepiscono e categorizzano le alterità etniche, religiose, sessuali, eccetera. Queste ricerche usano tecniche di brain imaging per esaminare come il nostro cervello processa, valuta e incorpora nei processi decisionali, le categorie di razza e etnia. Sembrerebbe che l’amigdala (la porzione cerebrale implicata nella regolazione dei processi emotivi, in particolare quelli connessi alla paura) provochi reazioni ‘repulsive’ verso gli elementi considerati estranei, addirittura anche individui di un’altra etnia o di un altro gruppo (outgroup) con confini culturalmente e socialmente delimitati. La risposta repulsiva sarebbe preceduta da una sensazione di disgusto, un’emozione che in origine ha una funzione adattiva nel processo evoluzionistico, finalizzata all’evitare fattori ‘contaminanti’ (per esempio, il latte andato a male), ma che si è evoluta in una sorta di ‘sistema immunitario comportamentale’. (…) Le ricerche di Kubota, Mahzarin e Phelps (Nature Neuroscience, 15, 2012) ci dicono che, a livello implicito (quindi indipendentemente dalle opinioni ‘esplicite’ sul razzismo), la maggior parte dei bianchi (americani) impiega più tempo ad associare (Iat) immagini di persone di colore alla parola ‘buono’ e immagini di persone bianche alla parola ‘cattivo’. E che, se vediamo immagini che rappresentano gruppi etnici diversi dal nostro, avvengono attivazioni cerebrali a livello di amigdala, area facciale fusiforme (Ffa), corteccia cingolata anteriore (Acc) e corteccia prefrontale dorsolaterale (Dlpfc). Ancor più interessante è quando lo Iat ‘rivela’ il razzismo non tanto di chi ne fa professione politica (qui basta l’occhio nudo), ma di chi, invece, si professa antirazzista (o antiomofobo)”.

La paura dell’altro, la diffidenza nei confronti del diverso, sia esso diverso per il colore della pelle o la religione d’appartenenza o ancora l’orientamento sessuale, esiste da sempre e praticamente in ogni società umana ha fatto la sua comparsa. Il razzismo poi, inteso non come insulto ma come fenomeno anti-culturale, ha trovato persino una sua dimensione “scientifica”, e le virgolette sono in questo caso d’obbligo, quando sono cominciate a comparire le varie teorie sulle diversità delle razze umane. Da più parti si è in passato infatti sostenuto, e tentato di spiegare scientificamente, come non tutte le razze umane fossero uguali. Come, ad esempio, i neri fossero una sorta di anello intermedio tra scimpanzé e uomo bianco caucasico. Ovviamente così non è e gli esseri umani, bianchi, gialli, neri o rossi che siano, sono tutti evolutivamente allo stesso livello.

La verità scientifica non ha però scalfito molte delle radici culturali del razzismo, e Roberto Calderoli ne è la dimostrazione pratica nostrana, né tanto meno ha spento le radici istintive di questo. La scienza e la tecnologia offrono oggi la possibilità di “vedere” cosa accade all’interno del nostro cervello e questo, come spiegano i test citati da Lingiardi, ha svelato come nell’amigdala risieda l’istinto primordiale del razzismo, che altro non è se non l’antichissima paura del diverso e del non conosciuto.

Ma se già sapevamo che forse l’unico modo per contrastare il razzismo era la cultura, l’insegnamento, l’educazione, grazie ai recenti test sappiamo ora che sono queste le stesse armi che possono agire anche sulla parte più antica di noi. Spiega ancora Lingiardi: “Le ‘neuroscienze del razzismo’ testimoniano una vulnerabilità primitiva al tema ‘appartenenza vs non appartenenza’ a quello che viene considerato il proprio ‘gruppo’. Si tratta di un cedimento a paure arcaiche e sentimenti d’inferiorità. Gli esperimenti di Phelps mostrano anche che i test condotti usando volti noti (attori e politici afro-americani) riportano una riduzione dell’attività dell’amigdala. E che, col passare del tempo, l’attivazione dell’amigdala diminuisce, lasciando posto a un’elaborazione corticale di ‘ragionamento’. Insomma, e non sorprende scoprirlo, conoscenza e ragione sono risposte efficaci contro il razzismo”. Purtroppo però la scienza non è ancora riuscita a spiegare come e perché alcuni umani, alla conoscenza e alla ragione, risultino impermeabili.