Streaming ossessione ipocrita: non politica verità ma fiction

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 27 Marzo 2013 - 15:06| Aggiornato il 18 Novembre 2022 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Lo sapevamo, ma ce l’hanno fatto vedere. È il “no” del Movimento 5 Stelle a qualsiasi ipotesi di collaborazione con il Pd, è il “no” senza se e senza ma trasmesso in diretta streaming. Una diretta voluta, quasi pretesa in nome della trasparenza e diretta che, come era facile immaginare, più che la trasparenza ha regalato agli spettatori un teatrino e nulla più. Un “no” annunciato e ripetuto e un “no” che certo non avrebbe potuto trasformarsi in niente altro. Non nella politica verità illuminata dalla salvifica luce dello streaming ma nella fiction. Fiction perchè la politica in diretta web, come ogni buona fiction insegna e prevede, vuole che tutti gli attori abbiano un ruolo e un copione fisso da seguire.

Vicina come può essere il Grande Fratello alla vita reale, la diretta dell’incontro tra il presidente del consiglio incaricato Pier Luigi Bersani e il Movimento 5 Stelle, ha prodotto sotto la maschera della trasparenza che i grillini hanno calato in realtà qualcosa di diverso. Qualcosa che non è politica e nemmeno trasparenza. La telecamera accesa sull’incontro di questa mattina non ha infatti consentito a chi ne sentisse il bisogno di sbirciare quella che è la politica “vera”, e non ha fatto sì che chi volesse dissentire dalla linea del Movimento non lo facesse perché “riconoscibile”. O meglio, forse quest’ultimo aspetto lo può anche aver garantito, ma non certo in nome della tanto sbandierata trasparenza.

Come ogni telespettatore sa fin troppo bene, le telecamere accese non hanno il pregio e la capacità di riprendere la realtà così come sarebbe se quelle telecamere non ci fossero. Al contrario, la presenza della tv, incide e molto sui comportamenti dei soggetti ripresi. Ed incidendo inevitabilmente distorce e comunque modifica la realtà. Ecco come la trasparenza invocata si trasforma in teatrino con gli attori, che da attori politici diventano attori tout court, che prima del contenuto del colloquio si pongono il problema sulla forma di questo, preoccupati non dall’esito dell’incontro ma dell’immagine che daranno di se stessi all’esterno.

“La casa di vetro”, così la definisce Massimo Gramellini su La Stampa:

“Mio padre fu per tutta la vita amministratore di condominio. Dopo averne moderate più di un migliaio, giunse a teorizzare che la migliore assemblea, quella veramente produttiva di risultati, comporta sempre due tempi. Nel primo i condomini si rinfacciano incomprensioni e malumori, nel secondo gettano ponti e abbozzano compromessi: io cedo sul riscaldamento centralizzato, però tu mi concedi il lavatoio accanto al terrazzo condominiale. Ma, diceva, sarebbe impossibile giungere a questa suprema armonia delle dissonanze se i protagonisti si dovessero occupare delle forme. Se cioè agissero con la consapevolezza di essere visti e giudicati dall’esterno. Sapersi osservati induce a compiere uno sforzo di autocontrollo che sconfina nella finzione. Poiché l’orgoglio ti impone di mostrarti duro e puro agli occhi del mondo, perdi intelligenza, capacità di ascolto, elasticità. Almeno finché la telecamera rimane accesa, come dimostrano i pollai televisivi. Poi per fortuna il collegamento in streaming finisce, la casa di vetro abbassa le persiane e si comincia, orrore, a fare politica”.

Qualche grillino ortodosso potrebbe obiettare al giornalista Gramellini che quella politica che si tornerebbe a fare a telecamere spente è quella degli inciuci, quella cosa sporca che loro non vogliono e non sono. E anzi probabilmente questa posizione sarà presa e difesa da più di un esponente del Movimento. Ma la politica a cui fa riferimento Gramellini non è una cosa sporca, ma l’arte del governare come la intendiamo fin dai tempi di Atene o giù di lì. Non la politica dei vari Scilipoti o De Gregorio a cui purtroppo in questi anni sembriamo esserci assuefatti ma quella fatta di idee, lavoro e anche, incredibile a dirsi, di persone oneste.

La ripresa televisiva non serve alla trasparenza, non serve a far conoscere alle “persone comuni” quella che è la politica, non serve a mostrare le stanze dei bottoni e non le riproduce meglio di quanto una zebra allo zoo riproduca la savana africana. La telecamera accesa somiglia più ad una sorta di minaccia o di gogna, dove i parlamentari che eventualmente avessero un’idea diversa da quella del Capo sarebbero pubblicamente additati come traditori. Nulla a che vedere con la democrazia, vicina a questa come un film porno lo è all’amore. Perché, usando le parole di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera:

“La riservatezza non è necessariamente un disvalore. Non perché, come recita la vulgata neo-rousseauiana della democrazia diretta e senza nemmeno l’ombra di una mediazione, ci sia necessariamente qualcosa di losco o di poco raccomandabile ‘da nascondere’, ma perché la trasparenza totale e senza residui contiene paradossalmente un’idea autoritaria della vita e della politica. Il massimo della democrazia diretta, come insegna la degenerazione giacobina della Rivoluzione francese, può trasformarsi nel massimo della coercizione. L’idea che ogni frammento dell’esistenza sia sottoposta al costante scrutinio dell’opinione pubblica è anche alla base del Panopticon descritto da Jeremy Bentham, in cui da un’unica autorità installata al centro si può controllare ogni singolo fiato emesso dai cittadini. Winston Smith, il protagonista di ‘1984’ di Orwell si nascondeva persino dentro casa non perché avesse qualcosa di osceno da ‘nascondere’, ma perché si sentiva soffocare da un’autorità che controllava ovunque ogni suo singolo movimento”.