Veleni negli armadi di casa. Vestiti con ftalati, solventi..

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 12 Maggio 2016 - 14:15 OLTRE 6 MESI FA
Vestiti in un armadio

Vestiti in un armadio (foto d’archivio Ansa)

ROMA –Veleni negli armadi di casa: per gli scheletri dovremo continuare ad organizzarci da soli, ma anche senza il nostro intervento i nostri armadi sono e saranno portatori di spiacevoli sorprese. Sono infatti pieni di veleni: sostanze tossiche, nocive per la salute come per l’ambiente quali ftalati, formaldeide, metalli pesanti, solventi e coloranti. Tutti usati per rendere belli, comodi e impermeabili i nostri abiti. Secondo uno studio realizzato dalla Ue, il 7/­8% delle patologie dermatologiche è dovuto a ciò che indossiamo mentre il Sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari piazza l’abbigliamento al primo posto della classifica per elementi chimici pericolosi. Il tutto in un quadro di controlli quasi inesistenti a causa di una realtà complessa da esaminare e in una cornice normativa che non aiuta.

“Secondo dati elaborati da Altrocononsumo – racconta Monica Rubino su Repubblica – l’industria tessile è la seconda più inquinante al mondo, dopo quella che impiega fonti fossili per produrre energia e ricorre ad oltre duemila sostanze chimiche, molte delle quali dannose non solo per la salute ma anche per l’ambiente. Greenpeace dal canto suo ha testato 40 prodotti di abbigliamento e attrezzature oudoor (giacche, scarpe, tende, zaini, spacchi a pelo e persino corde), acquistati in 19 Paesei, trovando tracce di Pfc nel 90% degli articoli. Si tratta di sostanze usate per impermeabilizzare che si degradano con molta difficoltà, rimangono nell’ambiente per centinaia di anni e sono dannose per la salute. Tra le aziende finite sotto accusa anche marchi prestigiosi come The North Face, Salewa e Mammut”.

Dati ancor peggiori arrivano poi da un’analisi elaborata per conto del Ministero della Salute, analisi che ha rivelato che un capo d’abbigliamento su tre (34%) ha un’etichetta sbagliata, un’etichetta quindi che volutamente o meno non dice il vero sulla composizione dell’indumento cui è cucita. E poi poco meno di un capo su tre (29%) ha un Ph fuori dalla norma, mentre il 15% degli articoli esaminati sono stati trovati del tutto privi di etichetta di composizione. Proporzioni che applicate al nostro armadio ci dicono che in primis con buona probabilità non sappiamo qual che indossiamo e con altrettanta buona probabilità avremo più di un capo, dalla giacca alle mutande, non in regola con il Ph e chissà altro cosa. Ovviamente finora questo contenitore di veleni non ha manifestato sul corpo del proprietario la sua pericolosità, altrimenti si sarebbero presi provvedimenti, ma non tutti siamo stati così fortunati.

Secondo i risultati di un altro studio, commissionato questo dalla Commissione Ue (Chemical substances in textile products and allergic reactions), il 7­8% delle patologie dermatologiche sono infatti dovute ai vestiti che indossiamo e alle sostanze chimiche che contengono. I controlli, come rivelano gli addetti ai lavori, sono complessi e avvengono per lo più dopo le segnalazioni dei consumatori. Per quanto riguarda l’import poi, chi importa non è tenuto a verificare come avviene la produzione o quali sostanze vengono utilizzate, e non ne è quindi responsabile. Mentre per quel che è prodotto in Italia il riferimento normativo generico è il Codice del Consumo, che vieta di immettere in commercio un articolo se pericoloso ma non fornisce indicazioni né alle aziende né a chi deve fare le verifiche. Ed anche il regolamento europeo Reach, che stabilisce i criteri per l’uso delle sostanze chimiche nell’Unione Europea, ha maglie estremamente larghe per quanto riguarda le restrizioni alla presenza di sostanze pericolose negli articoli tessili e calzaturieri. Infine nemmeno il marchio made in Italy è di per sé garanzia di qualità, dal momento che include prodotti confezionati in Italia ma con tessuti importanti dalla Cina o da altri Paesi extraeuropei.

E allora come fare, come provare a tutelarsi? “Premesso che la cosa migliore in assoluto sarebbe comprare meno abbigliamento ­ consiglia Rita Dalla Rosa, autrice del libro ‘Vestiti che fanno male’ (Editore Terre di mezzo) ­ l’ideale è un prodotto di fascia media: né griffato, né fast fashion ‘usa e getta’. I capi realizzati in Italia o in Europa, tendenzialmente, sono più sicuri”. Altri consigli spiccioli ma utili: “Evitare, specie per gli indumenti intimi, i colori scuri che possono trasmigrare sulla pelle più facilmente a causa del sudore. Lavare sempre gli abiti appena comprati: spesso hanno fatto lunghi viaggi e sono stati riempiti di antiparassitari. E ovviamente – conclude Dalla Rosa ­ usare detersivi poco aggressivi, possibilmente ecobio”.

Insomma occhio al vestito e attenti anche all’armadio. E sarà anche prudente e salutare. Però una domanda: come mai sempre più vestiti di veleni e insidiati da cibo, bevande, armadi, scarpiere, elettrosmog casalingo, strade camere a gas…campiamo in media un quarto di secolo in più di quando e di dove si vestivano e si vestono, mangiano e bevono e vivono “al naturale”?