Di carne di cavallo non è mai morto nessuno

di Antonio Del Giudice
Pubblicato il 19 Febbraio 2013 - 13:20| Aggiornato il 21 Febbraio 2013 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Nei ravioli e nelle lasagne della Nestlè ci sarebbe dunque l’1 per cento di carne di cavallo e il 99 per cento (si presume) di carne di manzo. Senza dubbio un fatto sconcertante e riprovevole, al punto che la Nestlè ha ritirato dai banconi i prodotti in Italia e Spagna. In attesa di sviluppi.

Non è per uno sciocco amarcord personale (la cosa semmai riguarderebbe milioni di persone) che mi torna alla mente un ricordo di quando ero ragazzino e per noi, ragazzini pugliesi, la carne era quella di cavallo, diversa da quella del mulo o dell’asino (più dura).

Tranne che a Pasqua e a Natale, quando compariva sulla tavola qualche pezzo di agnello, le domeniche si festeggiavano con la dolciastra carne di cavallo: ragù per le orecchiette, involtini cucinati per cinque ore (al sugo o alla genovese sovrabbondante di cipolla), affumicata con il profumo del pino e con il seme di finocchio, tritata e insaccata con seme di finocchio, sale, pepe e prezzemolo.

Non dico del filetto, che a casa mia non potevamo permetterci, e che era squisito. E lascio perdere le frattaglie di fegato, di polmone e di coratella per non farla lunga. Ma la nostra carne per eccellenza era quella di cavallo. Costava (fine anni Cinquanta) mille lire circa al chilo, sfamava una famiglia di otto persone, era l’unico pasto di proteine animali, oltre alla mozzarella, in una terra dove la cacciagione era una roba per signori, e le proteine arrivavano solo dai legumi.

Con gli anni e con gli spostamenti per lavoro, ho scoperto che i trentini fanno un grande uso di cavallo con la carne salata e i mantovani considerano un piatto da re l’eccellente stracotto d’asino. All’inizio del mio soggiorno a Mantova, l’asino mi parve addirittura un salto indietro rispetto al mio cavallo, ma poi imparai ad apprezzarlo alla tavola raffinata di Nadia e Antonio Santini, a Canneto sull’Oglio. Provare per credere.

Che cosa unisse noi della terra di Bari con i trentini e i mantovani era lapalissiano: la povertà. C’era da invidiare la Lombardia ricca, il Piemonte e la Toscana con i loro bolliti straricchi, le loro “fiorentine” sanguinolenti, la tartare e tutto il resto. A noi era toccato il cavallo, che qualche volta era magari un vecchio mulo azzoppato e nobilitato dal macellaio.

Eravamo contenti del nostro agnello natalizio e pasquale con le sue interiora legate nel budello e cotte a fuoco vivo. Per noi il manzo era sacro, come la vacca per gli indiani, perché non potevamo permettercelo, non per ragioni religiose.

Tutto ‘sto casino per l’1 per cento di cavallo nel 99 per cento di manzo mi pare eccessivo. No mangiavamo metri di salciccia di cavallo cruda (la nostra tartare) e non è mai morto nessuno