Interstellar di Christopher Nolan: l’Odissea nello Spazio che finisce come la Divina Commedia

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 7 Novembre 2014 - 05:53| Aggiornato il 21 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Interstellar di Christopher Nolan, ovvero l’Odissea nello Spazio che finisce come la Divina Commedia. Ci vuole un’immensa arroganza per portare quasi tre ore di film oltre le Colonne d’Ercole del rappresentabile, e mostrare – col piglio realistico di Gravity – l’universo che si apre al di là di un buco nero.

Arroganza e ambizione che non mancano al quarantaquattrenne regista di Inception, Memento e The Prestige, sostenute da 165 milioni di dollari di budget. Quasi un milione per ognuno dei 169 minuti di Interstellar.

LA TRAMA. Nel cuore della America delle farms (sterminati terreni agricoli negli Stati centrali), in un momento imprecisato di un futuro prossimo, Cooper (Matthew McConaughey) è un ingegnere ed ex pilota della Nasa costretto a fare l’agricoltore in un mondo affamato dall’estinzione delle piante commestibili e minacciato dalle tempeste di sabbia (le Dust Bowl che veramente colpirono l’America negli anni 30).

La carestia planetaria mette l’uomo sulla difensiva e lo avvia su una strada del regresso apparentemente senza ritorno , quella di una decrescita tutt’altro che felice: e se le migliori menti di una generazione vengono spedite a coltivare mais, il programma spaziale viene riconvertito in programma missilistico per bombardare l’umanità e risolvere nel modo più cruento il problema della fame.

Dice il preside della scuola, frustrando il desiderio di Cooper di iscrivere suo figlio al college: “Il mondo non ha bisogno di altri ingegneri. Non abbiamo esaurito aerei e televisori: abbiamo esaurito il cibo”.

Cooper, vedovo e padre di un adolescente (Tom, Timothée Chalamet, poi Casey Affleck) e una bambina (Murph, Mackenzie Foy, poi Jessica Chastain), non sopporta la sua condizione di farmer e rivendica lo spirito dell’America degli esploratori e dei pionieri: “Un tempo alzavamo lo sguardo al cielo chiedendoci quale fosse il nostro posto nella galassia, ora lo abbassiamo preoccupati e intrappolati nel fango e nella polvere”.

Questo trentatreenne inquieto (quell’età “nel mezzo del cammin di nostra vita”), al quale la catastrofe incombente non ha spento la sete di conoscenza, è l’Ulisse prescelto da quel che è rimasto della Nasa per guidare una missione impossibile, un viaggio con altissime probabilità di non ritorno: trovare altri mondi abitabili dove traslocare la specie umana (piano A) o quantomeno “seminare” alcune migliaia di embrioni congelati che possano far rifiorire l’homo sapiens in altre terre (piano B).

Mente della missione Lazarus (dal Lazzaro dei vangeli che si rialza e cammina dacché era cadavere) è il professor Brand (Michael Caine), convinto che i wormhole (cunicoli spazio-temporali attraverso “buchi neri”) siano porte che aprano scorciatoie nel tempo e nello spazio verso altre galassie. E quindi verso altri “Soli” e altri pianeti con acqua e aria in proporzioni tali da consentire la vita. E il caso vuole che si sia manifestato un wormhole a poca (si fa per dire) distanza da Saturno.

Dodici scienziati-astronauti sono già partiti e non hanno fatto ritorno. Ma qualcuno di loro forse ha scoperto dei mondi abitabili. Raggiungerli e verificare è il compito della spedizione composta da Cooper, dalla figlia del professore Amelia Brand (Anne Hathaway), dall’astrofisico Rommilly (David Gyasi), dal geografo Doyle (Wes Bentley) e dai robot TARS e CASE, due varianti riviste e aggiornate di HAL 9000 (il protocomputer co-protagonista di 2001: Odissea nello spazio). Il viaggio fino a Saturno sarà così lungo che gli astronauti dovranno ibernarsi per non sprecare ossigeno e provviste.

E se il professor Brand mette sul piatto una figlia e la responsabilità di mandare della gente a morire, Cooper deve lasciare due figli non potendo raccontare loro che probabilmente non li vedrà più e che sta andando a salvare il mondo – o almeno quella sarebbe l’intenzione. Parte con il dubbio che sua figlia Murph, la più amata, possa non perdonarlo mai per essersene andato.
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“FATTI NON FOSTE A VIVER COME FARMER”
. Per lanciarsi in un viaggio interstellare, per passare anni in una navicella spaziale, per attraversare un buco nero e abbandonare la nostra galassia, serve qualcuno che ti convinca per bene. Un “motivatore”. Uno come il professor Brand, che usa i versi di Dylan Thomas:

Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.

Gli stessi versi vengono ripetuti come una preghiera laica da Cooper, prima di guidare i suoi attraverso la “buona notte” del wormhole. E ricordano l’orazion picciola dell’Ulisse dantesco (Canto XVI dell’Inferno) prima di trascinare il suo equipaggio nel folle volo oltre le Colonne d’Ercole:

“Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”

L’azzardo del protagonista, che non vuole rassegnarsi a vivere coltivando granturco in un mondo dove i guardiani servono più dei pionieri, va di pari passo con l’azzardo del regista: dirigere un film che mostra – tutto insieme – la fine del mondo, il viaggio attraverso un buco nero, la scoperta di nuove galassie, la quarta e la quinta dimensione, il futuro dell’umanità. Portando al cinema le teorie della relatività riviste da un erede di Einstein come Kip Thorne, consulente e produttore esecutivo del kolossal di Nolan.

E se 2001: Odissea nello Spazio, capolavoro di Stanley Kubrick col quale è inevitabile fare confronti, si concludeva con un gigantesco punto interrogativo, Interstellar, come la Divina Commedia, si chiude con un grande punto esclamativo, un Eureka! che farà inarcare più di qualche sopracciglio: “L’amore è l’unica cosa che trascende il tempo e lo spazio”, è la soluzione in una frase pronunciata dalla apparentemente fredda Amelia Brand. L’amore spiega tutto (non si può dire come senza commettere reato di spoiler) e chiude tutti i conti aperti da una sceneggiatura che non vuole perdersi nel buco nero di finali come quello di Lost.

L’amor che move il sole e l’altre stelle

È l’ultimo verso della Divina Commedia, un altro colossale azzardo narrativo, un’altra sfida a rappresentare l’irrappresentabile. Un altro capolavoro, come l’Odissea kubrickiana. Quindi Interstellar appartiene a quella famiglia, è un capolavoro? No. Ma va visto, e – se è possibile – rivisto. Perché siamo di fronte a un qualcosa sicuramente fuori dall’ordinario che, grazie anche alla colonna sonora di Hans Zimmer, entusiasma e coinvolge, spaventa e stupisce. E questo basta e avanza per varcare le Colonne d’Ercole della biglietteria.

INTERSTELLAR – IL TRAILER