Quando J.P. Morgan era la soluzione e non il problema

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 17 Aprile 2013 - 07:40| Aggiornato il 21 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA

Iniziò il 18 aprile 1906, con il terremoto che distrusse San Francisco: le enormi spese per ricostruire una città dove 300 mila abitanti su 400 mila erano rimasti senza un tetto fu un primo fattore di instabilità per i mercati. Un altro passaggio importate fu l’Hepburn Act, emanato nel luglio 1906: dava all’Icc, la Interstate Commerce Commission il compito di “calmierare” i prezzi dei biglietti ferroviari. La diretta conseguenza fu che i titoli delle aziende ferroviarie calarono nettamente e costantemente da settembre ’06 al marzo successivo. Trascinando tutto il resto del mercato azionario, che perse in quel periodo il 7,7% del suo valore. Poi la situazione precipitò. Una “tempesta perfetta“, come hanno raccontato Robert Bruner e Sean Carr nel libro The Panic of 1907: Lessons Learned from the Market’s Perfect Storm:

Tra il 9 e il 26 marzo le azioni crollarono di un ulteriore 9,8% (a volte si fa riferimento a questo collasso di marzo come un “panico dell’uomo ricco”). L’economia rimase volatile durante l’estate. Il sistema fu colpito da numerosi shock: le azioni della “Union Pacific” — uno dei titoli più comunemente utilizzati come garanzia — persero 50 punti; in giugno fallì un’offerta di obbligazioni della città di New York; in luglio crollò il mercato del rame; in agosto alla “Standard Oil Company” fu comminata una multa di 29 milioni di dollari per violazioni alla normativa antitrust. Nei primi nove mesi del 1907, le azioni avevano perso il 24,4%.

In un contesto già destabilizzato, i fratelli Heinze decidono di iniziare a speculare sui titoli dell’azienda di famiglia, la United Copper Company, un colosso nell’estrazione del rame. Ma la manovra – per una serie di calcoli sbagliati – si rivela un boomerang, l’azione precipita, la United Copper fallisce. È l’inizio del contagio. Gli Heinze insieme al loro socio in affari Charles Morse siedono nei consigli d’amministrazione di sei banche nazionali, dieci banche statali, cinque società fiduciarie e quattro imprese di assicurazioni.

In un sistema, il credito, che come dice la parola stessa è basato sulla reputazione, una banca non può avere fra chi la guida uno speculatore in bancarotta. O perlomeno non si deve sapere. Invece tutti seppero, e corsero agli sportelli: correntisti e clienti volevano indietro i loro soldi. Quando arrivarono alla Knickerbocker Trust Company, la fiduciaria che aveva finanziato la speculazione-boomerang degli Heinze, già cinque fra banche e società di intermediazione erano collassate. Ed erano passati solo 7 giorni dal 14 ottobre, giorno in cui gli Heinze avevano dato il via agli acquisti massicci delle United Copper. Solo tre giorni dopo la corsa agli sportelli aveva svuotato le casse di undici istituti. In pratica il sistema creditizio newyorchese, quindi americano, era nel panico.

Ma era già entrato in ballo J.P. Morgan. Aveva capito che serviva un prestatore di ultima istanza, capace di fare da garante per l’intero sistema bancario nelle fasi difficili, un soggetto che avesse la forza, la liquidità e la credibilità per resistere alle tempeste finanziarie. Insomma c’era bisogno di una banca centrale che ancora in America non esisteva.

La biblioteca di casa Morgan divenne “il posto in cui si mette fine al disordine”, come dichiarò lui stesso. Fu in quella stanza che si presero tutte le contromosse. I più grandi banchieri e il segretario del Tesoro George Cortelyou, capitanati da J.P. Morgan, salvarono prima le banche, poi l’intero sistema creditizio e finanziario.

Bisognava mobilitare masse enormi di dollari per fare fronte alla sfiducia dei risparmiatori nei confronti delle banche: servivano milioni per fare fronte all’assalto alle filiali. Chi voleva ritirare i propri soldi doveva essere messo nelle condizioni di farlo. Ma servivano molti più milioni per essere credibili: per convincere la clientela a lasciare – almeno per un weekend – i risparmi depositati in banca. Il lunedì l’avrebbero trovata ancora in piedi, la banca. Con i risparmi. Morgan e la sua unità di crisi agirono con decisione e riuscirono nel loro intento in meno di 24 ore.

La fase due fu quella del salvataggio di Wall Street, ovvero del New York Stock Exchange. Il mercato azionario si nutre di prestiti. Ma le banche, che avevano visto la morte in faccia, chiusero i rubinetti. Bisognava riaprirli. Bruner & Carr raccontano le 48 ore in cui J.P. Morgan salvò la Borsa:

«Alle 13.30 di martedì 24 ottobre, Ransom Thomas, il presidente della New York Stock Exchange, si precipitò nell’ufficio di Morgan per comunicargli che presto avrebbe dovuto chiudere i mercati. Morgan aveva ben chiaro che una chiusura anticipata della borsa sarebbe stata catastrofica.

Morgan convocò i presidenti delle banche della città nel suo ufficio. Questi cominciarono ad arrivare alle 14.00; Morgan li informò che almeno 50 società di brokeraggio della Borsa valori sarebbero fallite a meno che non fossero riusciti a raccogliere 25 milioni di dollari entro 10 minuti. Alle 14.16 i presidenti di 14 banche avevano messo insieme 23,6 milioni per mantenere a galla la borsa. Il denaro raggiunse il mercato alle 14.30, in tempo per terminare le negoziazioni del giorno, ed entro la chiusura del mercato (alle 15.00), 19 milioni di dollari erano stati concessi in prestito. Il disastro era stato scongiurato. Morgan era solito evitare la stampa, ma quando lasciò il suo ufficio quella sera, rilasciò una dichiarazione ai giornalisti: “Se la gente terrà i propri soldi nelle banche, tutto andrà a posto”.

Il venerdì, tuttavia, si vide più panico nel mercato. Morgan si rivolse nuovamente ai presidenti delle banche, ma questa volta riuscì a convincerli a mettere insieme solo 9,7 milioni. Per fare in modo che questo denaro fosse sufficiente per mantenere aperta la Borsa, Morgan decise che il denaro non avrebbe potuto essere usato per finanziare operazioni di vendita allo scoperto, da parte di speculatori che intendessero scommettere sul ribasso dei titoli azionari. Il volume delle negoziazioni nella giornata di venerdì fu pari ai due terzi di quello del martedì. A stento ma i mercati ce l’avevano fatta di nuovo ad arrivare alla campana di chiusura».

La tempesta non era ancora finita. Alla città di New York servivano 20 milioni di dollari entro il venerdì 1° novembre, o avrebbe dovuto dichiarare bancarotta. Lunedì e martedì l’allora sindaco George McLellan chiamò Morgan per chiedere aiuto. In gran silenzio J.P. comprò 30 milioni di dollari di obbligazioni della città di New York, scongiurando il fallimento e il rischio di un nuovo contagio che sarebbe partito dalla Grande Mela. Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo venerdì che già sabato 2 novembre un nuovo problema si affacciava all’orizzonte.