Caffettiera maxi di Bialetti: vita di un uomo in 24 tazzine

di Riccardo Capecchi
Pubblicato il 18 Febbraio 2016 - 07:03 OLTRE 6 MESI FA
Caffettiera maxi di Bialetti: la vita di un uomo in 24 tazze

Caffettiera maxi di Bialetti: sopra la bara, davanti a un altare, la vita di un uomo in 24 tazzine

Due giorni fa abbiamo assistito ad un evento straordinario: la benedizione della caffettiera. Il presidente e fondatore della Bialetti, il cavalier Renato Bialetti, ha deciso che le sue spoglie mortali dovessero essere cremate e messe a riposare in una grande Moka oversize.
Chiudere la storia di un uomo in 24 tazze è già di per sé una straordinaria sintesi. Se pensiamo poi che questo è il tempo di “nespresso. what else?” fatto di cialde di plastica che si buttano via e inquinano il pianeta, direi che quella di Bialetti è, oltre che una trovata straordinaria, un simbolo di straordinario significato.
C’è in quella caffettiera gigante qualche cosa di mistico. La grandezza del corpo di un uomo che è ridotto alla sua dimensione più essenziale, ovvero la polvere dalla quale trae origine ed alla quale l’uomo torna come ci ricorda la Chiesa ogni mercoledì delle ceneri.
Ma qui c’è qualcosa di più. È da quella polvere, che rappresenta il niente più assoluto, che, come per magia, emerge il distillato dell’uomo.
È da quella scatola di alluminio, un marchio di fabbrica della Italia che produce, che quello che era viene destinato all’eternità. Ma con una notevole differenza dall’urna narrata da Foscolo e dei grandi poeti.
Perché la caffettiera non è soltanto una scatola. È un luogo alchemico. Dove gli elementi della natura si contaminano e si mischiano.
Acqua, polvere e fuoco. E tutto cambia,
E in fondo dal caffè passa talvolta la vita e la morte. Michele Sindona, Gaspare Pisciotta, colpevoli di grandi malefatte, hanno reso l’anima forse più al diavolo che Dio per colpa o merito di quello che sarebbe dovuto essere un buon caffè.
Ma la nera bevanda è anche il ristoro dell’anima triste e rinchiusa. Anzi un’eccellenza italiana da consumare “co’ à ricetta ch’à Ciccirinella, compagno di cella, ci ha dato mammà”.
Ed è anche un pezzo di vita passata e consumata nei treni di terza classe di un’Italia scassata degli anni 70, dove il falso vero invalido Nino Manfredi vende ‘o café a clienti, amici e passanti vari.
Ed è un aroma che è la nostra madleine, un ricordo di quando le cialde espresso non stavano nemmeno nei bar e le nostre case assonnate della nostra infanzia si riempivano di un gorgoglio che ci entrava nelle orecchie, nel naso e nella bocca prima ancora di assaporarlo. E che faceva del mattino triste e insipido, forse, una buona giornata.
Insomma una cosa che scalda l’anima. Ed è appunto l’anima il vero nocciolo della faccenda.

Così quella caffettiera in mezzo ad una chiesa, sopra una bara, benedetta dal parroco con quel suo ricordo umano ridotto ai minimi termini, rappresenta una sorta di opportunità per il futuro. Pare dirci che le nostre spoglie mortali non sono destinate a sparire nel nulla ma che, da quel beccuccio, il nostro aroma, il nostro sapore, la nostra storia uscirà leggero e profumato librandosi nel cielo leggero leggero. Grazie omino coi baffi!