Coronavirus fa esplodere il modello Lombardia: dove è finito l’86% del Pil?

di Aldo Ferrara *
Pubblicato il 15 Marzo 2020 - 06:21 OLTRE 6 MESI FA
Coronavirus fa esplodere il modello Lombardia: dove è finito l'86% del Pil?

Coronavirus fa esplodere il modello Lombardia: dove è finito l’86% del Pil? (Nella foto, Aldo Ferrara)

Perché non ha retto il SSN Lombardia? Seconda parte della analisi della situazione della sanità in Italia condotta da Aldo Ferrara, professore f.r. di Malattie Respiratorie nelle Università di Milano e Siena, componente della Agenzia Controllo e Qualità SSPPLL Roma Capitale. La prima parte si legge qui,

La domanda è: come mai la Lombardia faro dell’Eccellenza Medica e Clinica in Europa non ha retto ad una emergenza epidemica? Quali i motivi di default?

Rifare la storia delle epidemie o pandemie dal XX secolo significa riproporre l’esempio eponimico della poliomielite che nel 1952 dilagò negli Stati Uniti con più di 57.000 soggetti colpiti.

Oggi dobbiamo fronteggiare il Coronavirus che presenta alcune peculiarità di altissima diffusibilità o infeziosità e relativamente bassa mortalità, attestata in Cina mediamente sul 2.5/3% dei casi colpiti.

L’Italia è stato il più colpito dei Paesi europei con circa 18 mila soggetti affetti ed una mortalità assestata su 1266 casi (7%) alla data del 13 marzo 2020.

Sulle tracce degli elementi per chiarire questa apparente anomalia, ci imbattiamo nei dati della Lombardia, la Regione più colpita del Paese che mostra circa 890 decessi con una percentuale di mortalità attestata sul 9%.

Mentre in Cina si registra l’inversione di tendenza, questa è ben lontana in Italia. I dati al 13 marzo indicano una prevalenza di pazienti in Lombardia con 9.820, così distribuiti nelle Top Five: Bergamo 2.136, Brescia 1.598, Cremona 1.302, Milano 1.146, Lodi 1.123. Già proprio Lodi da cui è partito il focolaio appare oggi l’ultima delle più colpite città lombarde.

In queste città ovviamente si registra il più alto numero di decessi.

Dell’intero ammontare di decessi il 70% è avvenuto in Lombardia (mortalità regionale del 9,6%), a fronte del 15.8% dell’Emilia Romagna (mortalità regionale dell’8%). Seguono nella tristissima classifica le altre Regioni del Centro Nord. E’ pur presto per fare consuntivi, bisognerà aspettare la fine dell’epidemia. Tuttavia questi dati che, statisticamente si distaccano per significatività indicano che qualcosa non ha funzionato nelle due fasi cruciali della malattia

L’isolamento dei soggetti portatori è apparso inefficace e si è consentito il dilagare della sindrome specie nelle città di Bergamo e Milano dove si riscontrano i più alti indici di mortalità.

Alla fase diagnostica tempestiva non è corrisposta un’altrettanto fase positiva della cura laddove il 6% dei pazienti (addirittura inferiore rispetto al dato nazionale del 7%) è dovuto ricorrere alla terapia intensiva.

Il letti di terapia intensiva in Lombardia, destinati ai pazienti di Coronavirus, sono attualmente 610. L’Assessore al Welfare Gallera ha ricordato che nei giorni scorsi sono stati aperti altri 223 letti di terapia intensiva in prima istanza ed in seconda altri 43. Un totale parziale di 266 che si aggiunge a quello storico d’inizio emergenza.

Il totale definitivo sale a 876, con un incremento del 30% circa. Incremento che sconta peraltro la necessità del reclutamento di personale medico e paramedico affatto specializzato, operazione più complessa da portare a termine operativo rispetto alle Grandi attrezzature (ventilatori a dimora e ventilatori portatili, ossia da terapia intensiva e sub intensiva rispettivamente) il cui acquisto e utilizzo richiede pochi giorni.

Notizie di stampa indicano nella ex Fiera di Milano, o più probabilmente in altro sito, la sede di circa 20 mila mq dove installare una Unità Intensiva capace di 500 posti letto. In realtà sembra che detto piano debba saltare e quindi non resta che implementare le strutture ospedaliere esistenti (S. Paolo, Niguarda, etc).

Comunque, per 500 letti di rianimazione e assistenza ventilatoria, sono richiesti almeno 750 medici specialisti in Anestesiologia e Rianimazione, in tre turni di 8 ore/die e 1200 unità di personale paramedico specializzato. Reclutare un tal numero di specialisti è compito improbo e richiede molto tempo data la carenza sia di personale specializzato sia di Specialisti del settore. Si paga cioè un ritardo di programmazione su emergenze straordinarie alle quali si sarebbe potuto far fronte in tempo utile con adeguati investimenti.

Il default arriva dunque proprio da uno dei più apprezzati Poli della Scienza Medica, la Lombardia, sede di IRCCS, strutture di Ricerca Clinica a scopo scientifico, la sede dei Poli Universitari, S. Raffaele, S. Paolo, Monza Bicocca, il Galeazzi, l’Ospedale Maggiore con le Aziende di Niguarda e soprattutto il Policlinico di Via F. Sforza. Ma quest’ultimo è stato raso al suolo mantenendo l’unico Padiglione , tutelato dalla Sovrintendenza dei Beni Artistici, il Pad. Litta, che era la sede della Clinica delle Malattie Respiratorie ( disciplina che impropriamente viene definita Pneumologia) e che adesso ospita uffici amministrativi.

Un cluster di strutture ospedaliere e universitarie di eccellenza che hanno fatto di Milano e della Lombardia il Faro della Medicina Europea. E quale sarà il destino di molte IRCCS (Humanitas, Centro Auxologico etc) se non dei ricoveri assistenziali di manzoniana memoria?

E allora come mai questa debacle? Una delle possibili cause potrebbe essere il deficit di investimenti nelle strutture sanitarie pubbliche e il trascinamento della Sanità Lombarda verso la semiprivatizzazione che è passata attraverso le forche caudine della sussidiarietà e delle convenzioni con Enti Privati. Il cosiddetto Modello Formigoni.

Già nel 2013 nel volume “Rione Sanità, chi si ammala è perduto”, Aracne, 2013, avevamo stigmatizzato la difformità di spesa sanitaria in molte regioni, 10 delle quali, tutte quelle del Centro Sud, finirono in regime di Piano di rientro.

“… La investigazione del bilancio indica altresì che la ripartizione regionale non mostra un andamento differente fino ad arrivare a tetti massimi di spesa dell’86% del PIL per la Lombardia e la Sicilia, del 74% per il Lazio e così via. La spesa globale è praticamente raddoppiata passando da 48 a 80 miliardi di euro. Se dunque  le proporzioni di spesa sono rimaste identiche, il raddoppio, in meno di dieci anni, significa solo perdite e rivoli dispersi.

Verificando analiticamente la spesa, ripartita per regione, si notano elementi qualificanti essenziali. Ad esempio, prendendo quattro regioni ad alta densità (Piemonte, Liguria, Lazio e Sicilia) il disavanzo medio pro capite è pari a -103 euro/anno/p.c. mentre analizzandone altre quattro (Campania, Toscana, Emilia Romagna, Sardegna) il disavanzo è pari a -112.25. Sostanzialmente un disavanzo non dissimile che non può essere invocato come discrimine.

Malgrado ciò, secondo una certa ottica, le Regioni con minore disavanzo sono Lombardia, Puglia e Calabria, mentre le altre sarebbero più prodighe.

Come tutti sanno il c.d. modello Formigoni è quel modello sanitario ispirato ad una offerta sanitaria sempre più privatizzata, nella speranza di poter aumentare la qualità del prodotto, la sua distribuzione e la sua accessibilità.

Un modello nel quale la componente pubblica si va assottigliando sempre più e viene progressivamente sostituita dalla presenza privata. Questo si ripartisce a sua volta in due componenti: quella privata assoluta, costituita dalla contribuzione del cittadino alla spesa diagnostica, terapeutica e farmaceutica e quella privata relativa, costituita dalla introduzione di una quota parte assicurativa privata che contribuisce al rimborso sub-totale.

Una sanità dunque nella quale gioca in massima parte la contribuzione individuale, dettata dal proprio reddito..”. In poche parole che fine ha fatto l’86% del PIL lombardo devoluto alla Sanità?

In pratica nel 2020 si paga l’errore strategico della Programmazione Sanitaria della Lombardia degli anni 2000 quando fu deciso che la sussidiarietà – ossia demandare al privato compiti che sarebbero spettati al Servizio Pubblico, una sorta di privatizzazione surrettizia – sarebbe stata salvifica per un’offerta di salute soddisfacente e universale. In realtà questo risparmio di spesa non è stato sufficientemente o per nulla devoluto a investimenti nel settore, specie in quello Emergenziale.

Poiché le cause di Emergenza Sanitaria non possono essere soltanto limitati a epidemie, ma coinvolgono disastri naturali come terremoti, incendi, esplosioni o atti di terrorismo, è stato esiziale non prevedere una programmazione in tema emergenziale.

Seconda parte. Per la prima parte cliccare qui.

* Aldo Ferrara è professore f.r. di Malattie Respiratorie nelle Università di Milano e Siena, componente della Agenzia Controllo e Qualità SSPPLL Roma Capitale.

Fonti

Ferrara A. Rosafio L., Rione Sanità, chi si ammal è perduto. ARacne, 2013

Ferrara A. Quinto Pilastro, il tramonto del SSN, prefazione S. Garattiuni, Bonfirraro ed., 2016

Ferrara A. Guida al SSN, Lulu.com , 2018

Ferrara A. Crisi da Corona Virus o Crisi del Sistema Sanitario 1. Frontiere.eu, 9 marzo 2020

Ferrara A. Crisi da CoronaVirus o Crisi del Sistema Sanitario, Il Caso Lombardia, Frontire.eu, 14 marzo 2020