Coronavirus, per uscire dalla crisi, soldi a tutti. Quanti? Per quanto tempo? I pro e i contro

di Francesco M. Renne
Pubblicato il 23 Marzo 2020 - 13:03 OLTRE 6 MESI FA
Coronavirus, per uscire dalla crisi, soldi a tutti. Quanti? Per quanto tempo? I pro e i contro

Coronavirus, per uscire dalla crisi, soldi a tutti. Quanti? Per quanto tempo? I pro e i contro (Foto Ansa)

Ogni giorno che passa, una domanda si fa sempre più insistente: la diligenza di tutti quelli che hanno chiuso uffici, negozi e fabbriche (e anche senza obbligo specifico, tanti; riducendo l’operatività anche tramite smart working ove possibile), fin quando verrà messa alla prova? L’interrogativo è posto da Francesco M. Renne in questo articolo pubblicato anche su Uomini & Business diretto da Giuseppe Turani.

O, meglio, fin quando saranno sopportabili, i blocchi? Il lockdown, stando al Legislatore e agli esperti del settore, serve; la diligenza dei molti, anche. E non v’è dubbio che “ora” lo “stare a casa” sia necessario, se non per convinzione, almeno per rispetto delle regole. Ma, economicamente parlando, dopo? E, soprattutto, come arrivarci preparati, a un dopo?

Inevitabilmente, alcune riflessioni sul dopo e sul come arrivarci meritano dunque di essere fatte. E meritano di essere fatte partendo dalla questione, ad avviso di chi qui scrive, più rilevante. Seguita dai numeri, scevri da dietrologie di parte. E da qualche spiegazione tecnica, prodromica al ragionamento conclusivo.

La vera questione implicita che serpeggia sempre di più, riguarda la “portata” dell’evento che stiamo vivendo. Non tanto perché si dibatta se si tratti di un evento davvero “eccezionale”, di una tempesta perfetta imprevedibile – di un “cigno nero” irripetibile alla Taleb, per intendersi – ovvero se invece non si tratti di un raro evento rischioso che avrebbe però potuto essere previsto – e quindi che avrebbe dovuto coglierci preparati per tempo – e che potrebbe, in questa o altra forma, ripetersi in futuro. Piuttosto per il fatto che la risposta a questa domanda incide (dovrebbe, incidere, razionalmente parlando) sulla copertura dei rischi sociali futuri, sulla continuità dei business aziendali, sull’affidabilità dei sistemi di risk management delle imprese e sulle clausole contrattuali di commesse e forniture. E, nondimeno, sulla legislazione necessaria con cui sia meglio rispondere agli effetti economici derivanti da “questa” pandemia (e di quelle future, nel caso).

Per essere più chiari, da questo “bivio logico” nascono due aspetti conseguenti, uno giuridico ed uno economico.

Sotto il profilo giuridico, può il lockdown in atto (e per quali soggetti, nel caso, visto la diversità di provvedimenti presi) generare gli effetti della cd. “impossibilità sopravvenuta” ad adempiere, in tutela di un debitore o di una consegna o di un termine di controprestazione? 

Se sì, e ciò sarebbe conseguente al ritenere la pandemia come un evento del tutto eccezionale e irripetibile (rectius, imprevedibile evenienza “sopravvenuta, oggettiva e assoluta”), “tutte” le fattispecie debitorie e/o economiche pendenti nella durata del lockdown, ai sensi degli artt. 1256 e 1258 del codice civile,  “non” potrebbero, per il loro inadempimento, generare sanzioni, penali, interessi di mora etc ect, ma si produrrebbero anche, nei casi di impossibilità non solo temporanea, gli effetti di scioglimento dei contratti sottostanti (rectius, “estinzione dell’obbligazione”).

Se, invece, l’attuale pandemia, non venisse ritenuta evento imprevedibile ed eccezionale, ma rientrasse nel novero delle ipotesi di “crisi” sistemiche (per il perimetro dei soggetti coinvolti), straordinarie (per gli effetti) ma prevedibili (ex ante), tale previsione codicistica non scatterebbe (salvo poi dover spostare l’attenzione sui motivi della mancata sua previsione e del perché ci si sia fatti cogliere pressocché impreparati).

Non è questione da poco, nemmeno per le sue conseguenze economiche, sociali e politiche: se infatti scattasse automaticamente la fattispecie “lockdown = impossibilità sopravvenuta” (almeno per i soggetti obbligati), il “cerino” economico resterebbe in mano ai creditori (proprietari di case, investitori, finanziatori, dipendenti); mentre, se non scattasse, il medesimo “cerino” resterebbe in mano ai soggetti debitori (inquilini, emittenti, prenditori di prestito, datori di lavoro).

È evidente che, al variare della risposta, muterebbe completamente lo scenario di quali soggetti andrebbero in crisi e di quali strumenti – giuridici ed economici – si dovrebbero mettere in campo.

Forse è per questo che il Governo, in un articolo stranamente poco commentato dai media, all’art. 91 del Decreto “Cura Italia”, ha sancito – ponendosi, forse un po’ pilatescamente, un po’ a metà tra le due risposte prima indicate – che “il rispetto delle misure di contenimento […] è sempre valutato ai fini dell’esclusione” ex artt. 1218 e 1223 “della responsabilità del debitore” anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti. In altre parole, il lockdown – per i soli soggetti economici obbligati alla chiusura – in caso di giudizio è sempre valutato come esimente in favore del debitore. Un colpo alla botte, l’altro al cerchio, insomma.

Tralasciando, in questa sede, l’analisi giuridica e i dubbi che permangono sull’ambito di applicazione del disposto normativo appena descritto, analogo ragionamento andrebbe posto in materia di misure e provvedimenti economici per reagire alla pandemia.

Deficit (irrazionalmente) senza freni, guerra (sbagliata) al MES, evocazioni pubbliche (poco consapevoli, forse ancora più che poco sensate) di Helycopter Money, richiesta (solo in parte legittima) di introdurre gli Euro-bond, strali (immotivati, stavolta) sulla UE, invettive (ingiuste, gravi errori comunicativi della Lagarde a parte) sulla BCE, critiche (in parte oggettive) al Governo, esaltazione delle mosse altrui (senza forse ben averle comprese): cosa c’è di giusto, da fare? Di nuovo, torna la questione dirimente di “eccezionalità” (e discontinuità nel tempo) o di “prevedibilità” (e quindi di continuità e ripresa dello status quo, nel tempo).

Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, va detto che la BCE ha introdotto misure straordinarie in quantità enorme. Se negli USA si sono annunciate misure per circa 1.000 miliardi, la nostra banca centrale europea ne ha stanziati 750 per la misura denominata PePP (Pandemic Emergency Purchase Program) che si sommano al rinnovato QE (Quantitative Easing) per circa 300, portando il totale degli interventi deliberati a superare i mille miliardi di oltre oceano.

In più, viene previsto un alleggerimento temporaneo dei requisiti di capitale di vigilanza richiesto per le attività creditizie e finanziamenti diretti dalla BCE se destinati al credito verso PMI. Di tutta evidenza, BCE cerca di favorire il percorso di accesso al credito (soprattutto) per le PMI e di salvaguardare i mercati dei titoli (sovrani ed obbligazionari), muovendosi sul solco della “continuità”.

In sede europea, anche andando oltre a quanto già previsto dai Trattati, si è prima deciso di concedere flessibilità di bilancio agli Stati membri per le spese sanitarie straordinarie connesse all’emergenza epidemiologica e poi si è arrivati alla sospensione del Patto di Stabilità (e dei relativi obblighi connessi).

Quindi, nei fatti, rendendo possibili maggiori deficit al di fuori dei parametri storici, muovendosi dunque sul solco della “discontinuità” (e nulla dicendo sul “come” rientrare dai maggiori deficit negli anni futuri).

La questione italiana, infine.

Come osservato dall’OCPI (Osservatorio Conti Pubblici Italiani, dell’Università Cattolica e diretto da Cottarelli) il Governo ha stanziato circa 25 miliardi di interventi diretti, di cui 3,2 sulla sanità, 5,1 sulla cassa integrazione, 2 sui congedi straordinari e 4 sulle (esigue) indennità agli autonomi, 6 sulle forme di garanzia di accesso al credito e 0,7 sul settore aereo (di cui ancora ulteriori 500 milioni per una ennesima newco per puntellare Alitalia).

I 6 miliardi in tema di garanzie di accesso al credito dovrebbero “muovere” (ma sarebbe più corretto dire “sostenere”) circa 80/120 miliardi di finanziamenti (a seconda del parametro utilizzato, per effetto della leva data dalla riserva frazionaria degli enti finanziari), che probabilmente saranno legate per la maggior parte alle cd. moratorie a 12 mesi (convenienti, in stato di necessità, ma facendo attenzione a taluni tecnicismi, come l’impatto sui rating e il cd. forborne che – semplificando – impedisce temporaneamente nuovo credito alle aziende incorse in ristrutturazione di debiti pregressi).

Norme importanti, ma che appaiono – tralasciando alcune pecche (eufemisticamente parlando) di scrittura, soprattutto in campo fiscale, e alcune dimenticanze nel perimetro degli aiuti – ancora esigue (e lo saranno, tali, tanto maggiore sarà la durata del lockdown) e che si muovono nel solco della “continuità”, tranne che, come ricordato, per l’art. 91 del Decreto, prima richiamato.

Inoltre, per una migliore fotografia della (non facile) situazione, va tenuto conto del fatto che nel 2020 l’Italia dovrà già rifinanziare circa 340 miliardi di debito pubblico e che a fine gennaio (cioè prima dello scoppio dell’emergenza) le riserve liquide erano di circa 75/76 miliardi, di cui circa 20 non impegnate.

La gravità (economico-finanziaria) di ciò che sta accadendo fa si che la recentissima polemica sull’utilizzo del MES (i.e. Meccanismo Europeo di Stabilità, o anche ESF) sia poco costruttiva.

L’eventuale ricorso a questo ulteriore strumento, da parte di uno o di più dei paesi coinvolti dall’emergenza, consentirebbe una maggiore sicurezza finanziaria nell’affrontarla.

E, essendo uno strumento disponibile, come tale è giusto che venga vagliato in tutti i suoi aspetti.

Le obiezioni alle dichiarazioni in tal senso del premier Conte, evidentemente legate all’immotivata opposizione di alcune forze politiche al varo definitivo delle sue recenti modifiche – che tutelerebbero l’Italia proprio perché, ove introdotte, verrebbe in nuce esclusa possibilità di default – appaiono peraltro tese più a tatticismi politici interni che a sostanza economica.

Come facilmente rilevabile, anche il percorrere questa strada va nel solco della “continuità”.

La strada da percorrere per la “discontinuità” sarebbe invece quella del ricorrere a misure cd. di Helycopter Money (o, più correttamente, Helycopter Drop), che consistono nell’iniezione di denaro direttamente ai cittadini, nella speranza che questi, aumentando la possibilità di consumare, inneschino la ripartenza dell’economia (ora, però, ferma per il lockdown).

Ora, visto che questo termine (coniato da Milton Friedman a fine anni ’60) è tornato prepotentemente di moda, alcune considerazioni sul punto vanno fatte.

Intanto, chiunque sostenga questa opzione, dovrebbe avere chiaro cinque cose, nell’ordine:

“da chi” verrebbe erogato il denaro;

la “sostenibilità”, intesa come gli strumenti per erogarlo e gli effetti a posteriori;

“a chi” verrebbe erogato, inteso in termini di selezione dei percettori per categorie di reddito o erga omnes, ovvero se anche alle imprese e quali e in che settori e via discorrendo;

nonché, infine, se non sono una tantum, “fino a quando” mantenere attive le erogazioni e “come interromperle”, se gradualmente o meno, al momento della loro interruzione.

Come è evidente, un conto sono gli slogan, un altro la loro applicazione.

Peraltro, occorre rilevare come nei fatti – anche se forse non tutti se ne accorgono – fattispecie parzialmente assimilabili a questo meccanismo sono già esistenti ogni qual volta che si parli di sussidi a diretto carico dello Stato (è il caso, per fare un esempio di attualità, dei redditi di cittadinanza generalizzati), finanziati da emissioni di debito pubblico.

Solo che, nel caso delle operazioni di Helycopter Money, non si passa da operazioni sui mercati finanziari ordinari.

Come il prof. Monacelli ha ben illustrato recentemente su La Voce, esistono tre tipi di forme tecniche definibili come (Helycopter) Drop.

Sintetizzando, la prima forma attiene a trasferimenti e sussidi erogati dal Governo, finanziandosi con debito pubblico sottoscritto non dal mercato, ma direttamente dalla banca centrale (effetto incrementativo del debito pubblico, restituibile alla banca centrale a scadenza o gradualmente nel tempo);

la seconda forma attiene invece a trasferimenti e sussidi erogati dal Governo e finanziati direttamente dalla banca centrale (rispetto al precedente caso, vi è un diverso effetto sulla grandezza del debito pubblico, che non cresce, e sul patrimonio della banca centrale, che invece scende, a scapito della sua credibilità monetaria);

la terza forma, infine attiene a trasferimenti e sussidi erogati direttamente dalla banca centrale (con i medesimi effetti monetari della seconda).

Le condizioni a cui ricorrervi – e nel denegato caso vi si arrivasse, la prima delle tre, a parere di chi qui scrive, è quella più trasparente e gestibile – sono quelle di uno shock sistemico “eccezionale” e della “temporaneità” dell’intervento.

Le negatività evidenti, date dal ricorrere a questo tipo di strumento, consistono invece, da un lato, nel rischio inflattivo, dato dal perdurare dell’utilizzo dello strumento, nonché da quello connesso agli effetti di “ricaduta” al momento della sua interruzione e, dall’altro, dai condizionamenti che si avrebbero in termini di “aspettative future” degli agenti economici (i.e. cittadini, mercati, investitori) di fronte al ripresentarsi di “emergenze” simili nel tempo.

Di nuovo, emerge con forza il “bivio logico” prima posto, tra “eccezionalità” e “prevedibilità”.

E come, al variare sia dei commentatori che delle Istituzioni, le reazioni (e le decisioni operative) oscillino fra le due alternative, non sempre in maniera consapevole.

Forse, una via d’uscita finanziaria alternativa, però, potrebbe esservi. E sì, sono gli Euro-bond (o Corona-bond, giornalisticamente parlando).

Ma non gli Euro-bond per nuovo deficit corrente, richiesti a gran voce da chi, in campo europeo, protesta contro la resistenza al loro varo da parte dei paesi del nord Europa, accusando questi ultimi di scarsa solidarietà e la UE di inutilità mentre al contempo si lamenta, in campo interno, del proprio residuo fiscale che viene destinato alle regioni svantaggiate del sud Italia.

Sono più o meno gli stessi che contestano la moneta unica rifacendosi alla teoria delle “Aree Valutarie Ottimali” di Mundell, invocando un ritorno alla Lira per un territorio geografico, l’Italia, che non può proprio definirsi una “AVO” e che quindi necessita di trasferimenti fiscali al suo interno.

Proprio quelli che contestano. E ci si intenda, non è questione di difesa dell’attuale sistema fiscale o istituzionale del nostro Paese, tutt’altro. E questione di coerenza: o solidarietà, sempre, o rivendicazione dei propri orticelli, sempre, tertium non datur.

Sono invece gli Euro-bond di scopo, destinati unicamente a sostenere le misure emergenziali sanitarie per fronteggiare l’emergenza epidemiologica e, più in generale, primo tassello di una “finanza comunitaria” sostenuta – secondo anche l’opinione del Prof. Boldrin, se l’ho ben compresa – da una “tassazione federale” (e da una riforma in tal senso dell’Istituzione europea, secondo il parere di chi qui scrive) tesa al loro rimborso nel tempo.

Forse non il ritorno allo status quo precedente, ma nemmeno quella discontinuità dirompente che faccia saltare il sistema che conosciamo, che resta migliorabile ma – ancora oggi – insostituibile se vogliamo uscire velocemente (e bene) dall’emergenza.

Come scrisse Neruda, “potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera”.