Elezioni 2018, le liste di Renzi. Turani: Critiche infondate, c’è poca democrazia nel Dna del Pd

di Giuseppe Turani
Pubblicato il 30 Gennaio 2018 - 07:26 OLTRE 6 MESI FA
Le liste di Renzi, ecco perché ha lasciato a casa la minoranza.

Elezioni 2018, le liste di Renzi. Turani: Critiche infondate, c’è poca democrazia nel Dna del Pd

ROMA – In questo articolo, apparso anche su Uomini & Business col titolo “Renzi prepara la guerra”, Giuseppe Turani spiega come e perché il segretario del Pd ha compilato le sue liste lasciando a casa le minoranze.

Grandissime polemiche per le liste. Guerra dura soprattutto nel Pd. Per gli ultrà renziani va tutto bene, benissimo (ma loro applaudirebbero qualsiasi cosa). Quelli un po’ più normali, invece cercano di capire. Che cosa è successo?

E’ accaduto che il segretario ha usato la mannaia e si è costruito liste di candidati esattamente come piacevano a lui. Pochi posti alla minoranza, tanti fedelissimi (o supposti tali, poi si vedrà). Fuori anche gente per bene e competente.

Sbaglio colossale?

In queste liste si intravede già il partito di Renzi, il PDR, come lo chiamano i giornali?

In effetti è così. Molti protestano, ma un po’ a torto. Uno degli obiettivi, e nemmeno tanto secondari, di queste elezioni è quello di distruggere Renzi e di mandarlo a casa. Di toglierselo di torno, via.

Gli strumenti di difesa del segretario non sono molti: se il 4 marzo dovesse andare sotto il 20 per cento saremmo vicini alla sua fine politica (salvo tornare fra cinque anni).

In queste condizioni, un po’ precarie, Renzi ha giocato l’unica carta che aveva in mano. Forte della sua designazione a segretario con il 70 per cento dei voti (alle primarie), ha avocato a sé stesso la compilazione delle liste dei futuri parlamentari.

L’obiettivo è quello di avere un gruppo parlamentare schierato al suo fianco e poco incline a giochi di palazzo, cioè a tradimenti. Ma tutto ciò, obiettano i puristi, non è democratico.

Purtroppo, va ricordato a questi critici che la sinistra non ha grandi tradizioni democratiche, a parte le vanterie. I segretari del Pci, di norma, se ne andavano dopo morti. E certo non procedevano a consultazioni democratiche per compilare le liste. Lasciavano qualche posto anche ai non allineati, giusto per poter dire che erano democratici e aperti alla diversità di idee.

La battaglia di Renzi è ancora più complicata di quelle di una volta. Tutti i sondaggi dicono (e almeno in questo forse ci indovinano) che il 5 marzo non ci sarà alcuna maggioranza coerente in parlamento. E allora comincerà il gioco dei quattro cantoni. Salvini vedrà se gli conviene andare con i 5 stelle, quelli della Leu faranno gli stessi conti, il Pd (probabilmente) cercherà di capire se ci sono i numeri per fare maggioranza con Berlusconi e quel che resta della sua coalizione. E così via. Chi arriva ultimo nel gioco rimane in piedi.

Per non essere sfracellato in questa partita, che si annuncia caotica ancora prima che dura, Renzi deve essere un bravo manovratore, agile, e spregiudicato, ma soprattutto ha bisogno di un gruppo parlamentare che non faccia troppe storie, che non metta sul tavolo troppi distinguo.

E c’è chi guarda anche più lontano. Fin dalle prime Leopolde è in corso un dibattito “carsico” (un po’ emerge, poi scompare, poi riemerge) sul fatto che la rottamazione più urgente non era quella di Bersani o di D’Alema, ma quella dello stesso Pd, considerato, già allora, una sigla usurata e appesantita da residui novecenteschi.

Insomma, tutto a mare. E si fa un nuovo partito liberal-democratico, alla Macron. Chi sogna ancora l’articolo 18 o la difesa puntuale delle aziende decotte, se ne sta nel vecchio Pd. Gli innovatori nel nuovo partito. Renzi, in prima persona, ha sempre bocciato questa idea: si sta nel Pd, lo strumento è il Pd.

Ma, forse, senza dirlo, ha cominciato a cambiare parere. Nel compilare queste liste ha umiliato le sue minoranze come non mai: se ne possono anche non andare via, ma diventano del tutto irrilevanti. Se però se ne dovessero andare, meglio. Insomma, non le ha prese a padellate in testa, ma quasi.

Poi si fa En marche. O si spera.