La pensione è “retribuzione differita”, non si tocca. Monti non fu “ragionevole”

di Franco Abruzzo
Pubblicato il 1 Maggio 2015 - 10:06| Aggiornato il 6 Novembre 2020 OLTRE 6 MESI FA
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Elsa Fornero: il suo odio per i pensionati sconfitto dalla Corte Costituzionale

MILANO –  Franco Abruzzo ha pubblicato questo articolo anche sul suo blog.

Previdenza, incostituzionale il blocco della perequazione e dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione.I pensionati italiani conoscono la straordinaria coerenza della nostra Consulta nella difesa dei grandi valori della Repubblica. La sentenza è una risposta netta e perentoria a chi predica l’odio contro i cittadini che hanno lavorato per 35-40 anni versando contributi d’oro. Noi pensionati non ci sentiamo soli, abbiamo dalla nostra parte la Costituzione e il Giudice che la fa rispettare anche al Parlamento e al Governo. Le pretese dello Stato non possono colpire solo i pensionati. Ciò nel rispetto degli articoli 3 (uguaglianza) e 53 (progressività della tassazione) della Costituzione.

La Corte costituzionale con la sentenza 70/2015 riconosce per gli anni 2012-2013 la rivalutazione dell’assegno anche a chi percepisce una pensione superiore a tre volte il minimo Inps. Cancellata la norma del Governo Monti. Lo Stato dovrà sborsare 4,8 mld (di cui 1,5 ritorneranno all’erario sotto forma di tassazione). L’Inpgi dovrà versare almeno 6 milioni di euro. Bastonato Tito Boeri. neo presidente dell’Inps: se la Patria è in pericolo devono concorrere tutti i cittadini (attivi e pensionati), altrimenti “risultano intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita e l’adeguatezza. Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.. La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti”.

La eccezione di costituzionalità era stata sollevata dal Tribunale di Palermo e da varie sezioni regionali della Corte dei Conti.

Si legge nella sentenza (Presidente Criscuolo, Redattore Sciarra):

“La questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. è fondata. La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo”.

“La Corte Costituzionale…. dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento».

Nel punto 10 della sentenza si legge: “10.– La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).

Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993).

Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993).

La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi.

Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.).

L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata.

Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.. La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti”.