Pensioni. Deputati fuori legge, con la Corte costituzionale rischio conflitto

di Franco Abruzzo
Pubblicato il 7 Gennaio 2014 - 09:21| Aggiornato il 6 Novembre 2020 OLTRE 6 MESI FA
Pensioni. Deputati fuori legge, con la Corte costituzionale rischio conflitto

Giorgio Napolitano: ha provato a intervenire per i pensionati, Matteo Renzi lo ha bloccato

Allarme pensioni. Messaggio per i deputati che devono occuparsi di una serie di proposte di legge decisamente feroci e ingiuste.

Il Parlamento, reintroducendo il prelievo di solidarietà, ha violato un giudicato costituzionale (sentenza 116/2013). Pertanto quella norma presente nella legge di stabilità è abnorme ed illegittima. La lotta che i pensionati hanno intrapreso è nell’interesse anche delle nuove generazioni. Se passa la linea repressiva guai anche per chi andrà in quiescenza.

Il prelievo sulle pensioni configura una violazione del giudicato costituzionale (sentenza 116/2013 che lo aveva abrogato). Lo ha scritto la Corte costituzionale in numerose pronunce. Esse sono vincolanti per il Parlamento e per il Presidente della Repubblica, che, come è noto, era intervenuto informalmente sulla Camera, incontrando il veto di Matteo Renzi.

Il nostro ordinamento riconosce una particolare tutela ai trattamenti pensionistici, che hanno natura di retribuzione differita “sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico (degli impegni reciproci tra le parti, ndr) il rapporto di lavoro”.

Il Parlamento dovrebbe riflettere su questo assunto: il fare “rivivere norme già divenute inefficaci in conseguenza del loro annullamento da parte della Corte” contrasta con il “rigore del precetto racchiuso nel primo comma dell’articolo 136” che impone al legislatore di uniformarsi alla “immediata cessazione dell’efficacia della norma illegittima” (Corte costituzionale, sentenza 73/1963).

La sentenza 116/2013 della Consulta, quella che ha cancellato il prelievo sugli assegni previdenziali superiori a 90mila euro annui fa il punto sul concetto di pensione ed è il caso, alla vigilia del dibattito alla Camera sugli ipotizzati nuovi tagli alle pensioni, di ribadire quel passaggio: “I redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 (progressività tributaria, ndr) della Costituzione, il quale non consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi da lavoro. Questa Corte ha, anzi, sottolineato (sentenze n. 30 del 2004, n. 409 del 1995, n. 96 del 1991) la particolare tutela che il nostro ordinamento riconosce ai trattamenti pensionistici, che costituiscono, nei diversi sistemi che la legislazione contempla, il perfezionamento della fattispecie previdenziale conseguente ai requisiti anagrafici e contributivi richiesti. Il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre sentenza n. 30 del 2004, ordinanza n. 166 del 2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro”.

L’articolo 136 della Costituzione e il comma 486 dell’articolo 1 della legge di stabilità n. 147/2013. Il concetto di ‘tributo’ disegnato nella sentenza 304/2013 della Consulta – Nella sentenza n. 88 del 1966, parzialmente anticipata dalla sentenza n. 73 del 1963 successivamente confermata dalle sentenze nn. 233 del 1983, 922 del 1988, 350 del 2010 e 245 del 2012, la Corte afferma che così come “l’art. 136 sarebbe violato ove espressamente si disponesse che una norma dichiarata illegittima conservi la sua efficacia, del pari contrastante col precetto costituzionale deve ritenersi una legge la quale, per il modo in cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, persegue e raggiunge, anche se indirettamente, lo stesso risultato”; inoltre, l’art. 136 “non solo comporta che la norma dichiarata illegittima non venga assunta a criterio di qualificazione di fatti, atti o situazioni, ma impedisce anche, e necessariamente, che attraverso una legge si imponga che fatti, atti o situazioni siano valutati come se la dichiarazione di illegittimità costituzionale non fosse intervenuta”.

Questi principi – trattati in uno studio sistematico da Stefano Maria Cicconetti, docente emerito di diritto costituzionale nella Università di Roma Tre pubblicato nel numero di dicembre 2013 della rivista online dell’Aic (1) – determinano la incostituzionalità del comma 486 dell’articolo 1 della legge 147/2013 (legge di stabilità per il 2014), il comma che reintroduce il prelievo sulle pensioni superiori a 90mila euro annui.

Questo comma afferma: “A decorrere dal 1º gennaio 2014 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo INPS, é dovuto un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie, pari al 6 per cento della parte eccedente il predetto importo lordo annuo fino all’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS, nonché pari al 12 per cento per la parte eccedente l’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS e al 18 per cento per la parte eccedente l’importo lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo INPS. Ai fini dell’applicazione della predetta trattenuta é preso a riferimento il trattamento pensionistico complessivo lordo per l’anno considerato.

L’INPS, sulla base dei dati che risultano dal casellario centrale dei pensionati, istituito con decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388, é tenuto a fornire a tutti gli enti interessati i necessari elementi per l’effettuazione della trattenuta del contributo di solidarietà, secondo modalità proporzionali ai trattamenti erogati. Le somme trattenute vengono acquisite dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie, anche al fine di concorrere al finanziamento degli interventi di cui al comma 191 del presente articolo”. Il comma 191 prevede misure per assegnare la pensione agli “esodati” (rimasti, a seguito della “riforma Fornero”, senza pensione e senza stipendio).

Il prelievo, quindi, in base alla sentenza 304/2013 della Consulta, è un tributo in quanto “è destinato a sovvenire pubbliche spese”. Nella sentenza 304 si legge: “La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico (in cui le parti si impegnano reciprocamente le une verso le altre, ndr); le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.

Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva»; indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria”. Una volta “tradotto” in lingua popolare, questo passaggio significa che il prelievo previsto dalla legge di stabilità 2014 sulle pensioni superiori a 90mila euro ha natura tributaria per la sua destinazione a “pubbliche spese” e non può ricadere, ex sentenza 116/2013 della Consulta, su una parte dei cittadini (i pensionati), mentre i cittadini lavoratori a parità di reddito ne sono esenti.

“La norma impugnata integra – afferma la sentenza 116/2013 della Consulta – una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare, che presenta tutti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte per caratterizzare il prelievo come tributario (ex plurimis, sentenze n. 223 del 2012; n. 141 del 2009; n. 335, n. 102 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006; n. 73 del 2005)”.

La norma che fissò il prelievo nell’agosto 2011 poi cancellata dalla Consulta con la sentenza 116/2013. Il comma 22-bis dell’articolo 18 del dl 98/2011, cancellato dalla Corte costituzionale con sentenza 116/2013, affermava: “In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi complessivamente superino 90.000 euro lordi annui, sono assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000 euro; a seguito della predetta riduzione il trattamento pensionistico complessivo non può essere comunque inferiore a 90.000 euro lordi annui.

Ai predetti importi concorrono anche i trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, ivi comprese quelle di cui al decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 563, al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, nonché i trattamenti che assicurano prestazioni definite dei dipendenti delle regioni a statuto speciale e degli enti di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70, e successive modificazioni, ivi compresa la gestione speciale ad esaurimento di cui all’articolo 75 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, nonché le gestioni di previdenza obbligatorie presso l’INPS per il personale addetto alle imposte di consumo, per il personale dipendente dalle aziende private del gas e per il personale già addetto alle esattorie e alle ricevitorie delle imposte dirette.

La trattenuta relativa al predetto contributo di perequazione é applicata, in via preventiva e salvo conguaglio, a conclusione dell’anno di riferimento, all’atto della corresponsione di ciascun rateo mensile. Ai fini dell’applicazione della predetta trattenuta é preso a riferimento il trattamento pensionistico complessivo lordo per l’anno considerato. L’INPS, sulla base dei dati che risultano dal casellario centrale dei pensionati, istituito con decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388, e successive modificazioni, è tenuto a fornire a tutti gli enti interessati i necessari elementi per l’effettuazione della trattenuta del contributo di perequazione, secondo modalità proporzionali ai trattamenti erogati.

Le somme trattenute dagli enti vengono versate, entro il quindicesimo giorno dalla data in cui é erogato il trattamento su cui é effettuata la trattenuta, all’entrata del bilancio dello Stato”. Non c’è una differenza sostanziale tra il comma 486 dell’articolo 1 della legge 147/2013 e il comma 22/bis dell’articolo 18 del dl 98/2011 (abrogato dalla sentenza 116/2013 della Consulta): nel primo caso le somme ricavate dal prelievo e dirottate nel bilancio statale vengono destinate a “pubbliche spese” precise ancorate all’articolo 38 della Costituzione (le pensioni degli esodati) e nel secondo caso sono assorbite nel bilancio dello Stato per contribuire a soddisfare vari fronti di uscite dello Stato medesimo.

La Consulta spiega la violazione dell’articolo 136 della Costituzione – La giurisprudenza della Corte costituzionale è, comunque, assolutamente consolidata in ordine al principio, secondo cui “l’art. 136 sarebbe violato ove espressamente si disponesse che una norma dichiarata illegittima conservi la sua efficacia, del pari contrastante col precetto costituzionale deve ritenersi una legge la quale, per il modo in cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, persegue e raggiunge, anche se indirettamente, lo stesso risultato”.

La Corte aveva già affermato nella sentenza n. 73 del 1963 che il “rigore della norma dell’art. 136 della Costituzione, sulla quale poggia il contenuto pratico di tutto il sistema delle garanzie costituzionali, in quanto essa toglie immediatamente ogni efficacia alla norma illegittima. E proprio in considerazione della fondamentale importanza per il nostro ordinamento giuridico di questo precetto costituzionale, la Corte trova altresì opportuno porre in rilievo che esso non consente compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione”.

Ancora nella sentenza n. 88 del 1966, la Corte precisa che “l’opinione … secondo la quale l’art. 136 della Costituzione, disponendo che la norma di legge dichiarata costituzionalmente illegittima cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, avrebbe per destinatario solo chi è chiamato ad applicare la legge e non anche il legislatore, appare priva di fondamento. La disposizione costituzionale, invero, pone un divieto che non può non operare erga omnes: essa, infatti, non solo comporta che la norma dichiarata illegittima non venga assunta a criterio di qualificazione di fatti, atti o situazioni, ma impedisce anche, e necessariamente, che attraverso una legge s’imponga che fatti, atti o situazioni siano valutati come se la dichiarazione di illegittimità costituzionale non fosse intervenuta”. In sintesi, tre sono – scrive Stefano Maria Cicconetti – i principi che si ricavano dalla giurisprudenza della Corte a proposito dell’articolo 136 della Costituzione:

1) esso non consente compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione;

2) ha per destinatario non soltanto chi è chiamato ad applicare la legge ma anche il legislatore;

3) vieta alla legge d’intervenire, “anche se indirettamente”, sugli effetti prodotti per il passato da una norma dichiarata incostituzionale.

Il cerchio, pertanto, si chiude intorno alla soluzione escogitata dalle Camere per salvare la legittimità del comma 486: le somme del prelievo vengono impiegate per una eminente funzione di spesa pubblica qual è quella di dare le pensioni a una massa di cittadini (gli esodati). Quel prelievo è un tributo in base all’assunto elaborato dalla Corte costituzionale nella sentenza 304/2013. Un tributo privo della “universalità”, perché ricade su una platea di cittadini determinati (i pensionati) e non su tutti i cittadini (pensionati e attivi) e, quindi, destinato a fare una fine miseranda.

Il presidente della Repubblica, come è noto, era intervenuto informalmente sulla Camera anche al fine di evitare uno scontro lacerante tra Parlamento e Consulta, incontrando il veto di Matteo Renzi. “Va pertanto ribadito, anche questa volta, quanto già affermato nella citata sentenza n. 223 del 2012, e cioè che tale sostanziale identità di ratio dei differenti interventi ‘di solidarietà’, determina – si legge nella sentenza 116/2013 della Consulta – un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita, ‘foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un ‘universale’ intervento impositivo’.

Se da un lato l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano, dall’altro ciò non può e non deve determinare ancora una volta un’obliterazione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si fonda l’ordinamento costituzionale.

Nel caso di specie, peraltro, il giudizio di irragionevolezza dell’intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre sentenza n. 30 del 2004, ordinanza n. 166 del 2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico (degli impegni reciproci tra le parti, ndr) il rapporto di lavoro”.

Il Parlamento dovrebbe riflettere su quest’ultimo assunto: il fare “rivivere norme già divenute inefficaci in conseguenza del loro annullamento da parte della Corte” contrasta con il “rigore del precetto racchiuso nel primo comma dell’articolo 136” che impone al legislatore di uniformarsi alla “immediata cessazione dell’efficacia della norma illegittima” (Corte costituzionale, sentenza 73/1963).