La catastrofe di Berneschi, banchiere-doge di Genova, rovina dei risparmiatori, alla galera

di Franco Manzitti
Pubblicato il 27 Febbraio 2017 - 06:44 OLTRE 6 MESI FA

 

La catastrofe del banchiere Berneschi, doge di Genova, rovina dei risparmiatori, alla galera

La catastrofe di Giovanni Berneschi (nella foto sul banco degli imputati, durante il processo) banchiere-doge di Genova, rovina dei risparmiatori, alla galera

“Ci mancava solo che mi prendessero anche a fucilate”, dice Giovanni Berneschi in arte “Alberto”, uscendo dall’aula del Palazzo di Giustizia dove lo hanno appena condannato a 8 anni e due mesi di carcere e alla confisca di beni fino a 26 milioni di euro.

Non trema, né vacilla questo ex presidente di banca, fino a tre anni e mezzo fa l’uomo più potente di Genova, fronteggiando la condanna tanto pesante, che nessuno si aspettava in questa misura, per associazione a delinquere, truffa aggravata e riciclaggio e falso ai danni della sua Carige. In pratica lo hanno appena condannato per avere organizzato un sistema micidiale, attraverso le società assicurative del gruppo di Carige, che presiedeva da “re” assoluto: lui e un gruppo di sodali, tutti pesantemente condannati, tutte persone sulla cresta dell’onda, assicuratori come il suo socio numero uno Ferdinando Menconi, professionisti, commercialisti, notai, broker, compravano immobili a prezzi stragonfiati, poi li vendevano, incassando gigantesche plusvalenze, che investivano, attraverso aziende-schermo, in scintillanti operazioni all’estero. Alla faccia dei risparmiatori. Esempio: l’hotel Holiday, extralusso di Lugano.

Sembra che gli fumino le narici dalla furia repressa a questo signore un po’ scarmigliato, sull’orlo degli 80 anni, mentre esce dall’aula con i suoi avvocati interdetti, i capelli lunghi sul collo, l’abito blù da banchiere, in divisa da processo, elegante rispetto a come gira per la città da quando la sua stella è precipitata.

“Mi aspettavo l’ergastolo”, sibila ironico, uscendo dal grande palazzo nero dove c’è il Tribunale, giù per le scale e i metal detector, per niente vinto, per niente piegato da quella che tutti si affrettano a definire “la stangata”, una supercondanna superiore di due anni e due mesi alla richiesta del Pubblico Ministero, che si affretta a esultare in diretta tv per bocca del procuratore capo Francesco Cozzi: “Abbiamo dimostrato che in questa città non esistono “zone franche”.”

Zona franca e misteriosa, opaca o forse completamente oscura, era quella in cui per decenni si è mosso questo imputato, che esce capovolto dalle aule del processo di primo grado, sotto questo macigno di condanna che inchioda lui e i suoi complici, tutti puniti con caterve di anni di carcere e globalmente a una confisca di 80 milioni di euro, cifra per incominciare la rincorsa a una sorta di risarcimento, per quanto questa”banda” avrebbe succhiato alle casse della Carige, ex cassa di Risparmio di Genova e Imperia.

Esce capovolto, ma già lo era, anche se adesso c’è il timbro della condanna nel primo processo dei tre, che aspettano al varco Berneschi, che ancora mastica nella discesa della scalinata dal Tribunale: “ Se avessi ucciso qualcuno avrei preso una condanna minore….”.

Gli occhi di questo dottor Jekill e mister Hyde della Genova odierna lanciano ancora lampi di ira, mentre il cordone delle telecamere, dei cronisti lo inseguono, cercando altre battute nei suoi commenti.

Esce capovolto Giovanni “Alberto” Berneschi perchè ora la sua immagine di pluri condannato e pluri confiscato ha ribaltato completamente quella di doge, deus ex machina, king maker della banca ma non solo, del potere in città, che aveva alimentato quasi il suo mito.

Era il self made man, l’impiegato che aveva salito tutti gli scalini della banca-mamma di Genova e della Liguria, e scalino dopo scalino, era arrivato in cima, a essere il presidente-amministratore di una banca che per patrimonializzazione era diventata la sesta in italia, da settanta sportelli a settecento con espansione attraverso la nuova società, anni 2009, “Carige Italia” in tutto il Paese.

Non solo quel potere finanziario si era tradotto in potere pubblico politico quasi universale nella città in crisi. Si saliva al quattordicesimo piano della megadirezione nel grattacielo Carige, sul bordo dei caruggi, e si bussava alla sua porta sfilando davanti a una galleria di magnificenti opere d’arte, garanzie della solidità della banca, come si sale nell’empireo. Non era l’ultimo piano dei grattacieli alla Fantozzi, dove l’impiegato alla Fracchia viene convocato dal megapadrone “grand uff, lupmannar” per umiliazioni indicibili, ma era la stanza dove qualsiasi cosa poteva essere dispensata: dal finanziamento extra, alla candidatura politica, alla soluzione di grandi problemi aziendali, alla mediazione impossibile, allo svicolamento da procedure fallimentari ineluttabili, perfino alla benedizione cardinalizia e al viatico per ogni umana difficoltà.

Ora Berneschi, che con una intuizione ante litteram il suo predecessore in quella banca, il superdemocristiano Gianni Dagnino, aveva sopranominato “Il Bernesco”, scoprendone forse l’animus grifagno, smascherato ora dai processi, dalle accuse e sopratutto dal clamoroso disvelamento della sua rapace indole, altro che custode dei risparmi altrui, quelle scale fino al quattordicesimo piano, le passiere rosse, i commessi premurosi sulla porta, non può più neppure immaginare di salirle.

Prima della “stangata” la nuova gestione della banca, ora in mano a Vittorio Malacalza, l’imprenditore che l’ha scalata con successo, diventando azionista di maggioranza sulle macerie dello scandalo, ha annunciato una richiesta colossale di danni per i precedenti amministratori.

I “nuovi” sotto la presidenza dell’ex presidente della Corte Costituzionale Giuseppe Tesauro e di Guido Bastianini, amministratore delegato, cercano di segnare un confine tra quella banca travolta di Berneschi e quella di oggi. Il titolo Carige, che per decenni aveva raccolto la storica propensione al risparmio, dei genovesi valeva fino a trenta euro ai tempi d’oro. La tempesta giudiziaria, la caduta di Berneschi, lo scandalo, lo hanno polverizzato a 30 centesimi. E così, tra le severe direttive della Bce, che chiede di mettere rapidamente in vendita i crediti deteriorati, miliardi di euro, le necessità di una nuova sanguinosa ricapitalizzazione, Malacalza e i suoi cercano di dare una nuova identità alla ex banca mamma dei genovesi.

Marcano il confine con quel passato che si è capovolto, altro che la Torre di Pisa inclinata, la torre di Berneschi e dei suoi è sprofondata agli inferi. Chiedono i danni non solo a Berneschi e ai suoi, ma anche agli immediati successori, sventurati che nella fretta di recuperare avevano venduto le società di assicurazione di Carige Vita. E così in questa lista nera sono finiti anche una delle figure più insospettabili della città, il principe Cesare Castelbarco, immediato successore di Berneschi e il suo amministratore delegato, Pierluigi Montani.

Ma non è facile ricostruire dopo tali capriole l’immagine e la forza di una banca, che si fondava sul valore numero uno del popolo zeneise: appunto il riaparmio.

La banca era la Cassa e le sue certezze erano qualcosa ficcato a fondo nel Dna genovese. Davanti al Berneschi capovolto, che esce dal processo e contempla il rovesciamento non solo suo, ma del valore base del suo ex popolo di risparmiatori, in prevalenza anziani, fedeli a quei sportelli bancari, tranquilli, seduti sulle pietre di quella banca, raffigurati da una iconografia che da anni certifica il genovese tirchio, risparmiatore, attaccato visceralmente a questi valori base della sua esistenza terrena, si para ora uno scenario nuovo e agghiacciante.

“Ci sono risparmiatori che avevano investito ogni loro valore nella banca, racconta Beppe Damasio , ex dirigente Italsider, grande risparmiatore, e che puntavano a lasciare ai figli i soldi per comprarsi la casa. Per come è ridotta ora la Carige con quei soldi non si compreranno neppure i mobili di quella casa.”

Chi aveva il risparmio come religione dela sua vita scopre che il baratro è tanto profondo che non ne vedi la fine. “Compravamo le azioni Carige a trenta euro, raccontano, e ora quei titoli sono arrivati perfino a valere 25 centesimi.”

Altro che capriole, questo è un abisso. Una volta il risparmio lo garantivano anche le collezioni di monete d’oro della banca, i capolavori come i quadri di van Dyck esposti nelle felpate anticamere.

Oggi chi garantisce i risparmiatori che assistono allo scempio della condanna e alle confische’ “ Non riesco neppure a gioire della sentenza” , dice ancora Damasio. E Gino Barile, noto piccolo azionista, produttore di una famosa grappa, battagliero da decenni contro Berneschi e la sua gestione nelle assemble della banca, dove lo trattavano da esaltato, racconta come la puzza di bruciato di sentisse da tempo. “Era diventato il padre-padrone, non si muoveva foglia che lui non decidesse. In quel palazzo c’era del veleno.”, racconta più arrabbiato che sconsolato.

Aspettare il processo d’appello? Sarà questa la strategia di quell’ex padre- padrone uscito capovolto dalll’inchiesta, dal processo, dalla condanna- stangata? I suoi avvocati annichiliti parlano di una “pronuncia sorprendente” e rimandano alle motivazioni giudizi più puntuali.

Ma altre inchieste urgono alle porte e inchiodano Berneschi: il processo al Centro fiduciario, che era la cassaforte dei clienti più importanti, accusato ora di riciclaggio, il processo sul gruppo Orsero che ebbe largo credito e quei capitali sono finiti ai Caraibi e non finisce qui.

La Guardia di Finanza provvede a eseguire le confische. Berneschi torna a casa, capovolto, piegato, ma non ha ancora smesso di combattere.