Genova, l’emozione di guidare sul ponte San Giorgio. Renzo Piano: cianin cianin

di Franco Manzitti
Pubblicato il 6 Agosto 2020 - 10:11 OLTRE 6 MESI FA
Genova, l'emozione di guidare sul ponte San Giorgio (nella foto, incorniciato dall'arcobaleno)

Genova, l’emozione di guidare sul ponte San Giorgio. Piano: cianin cianin

Genova, il tuffo nel nuovo ponte San Giorgio. Le parole di Renzo Piano come un Mosè genovese.

Genova come un lampo di luce. Entrare sul ponte nuovo, san Giorgio, come l’hanno battezzato, un anno, undici mesi, nove giorni dopo e qualche ora e qualche minuto, è come tuffarsi in un lago di luce blu. Sbuchi dallo svincolo che non percorrevi da allora. Perché c’era un muro di transenne a sbarrare la strada e sei abbagliato.

Non puoi tentennare perché il flusso del traffico è continuo, ha ripreso da dodici ore prima. Nessuno lo potrà fermare. E allora guidi, le mani sul volante, l’occhio che scappa ovunque. Perché è un anno, undici mesi e qualche ora e qualche minuto, che immagini questo momento del ritorno.

Hai in testa il Morandi spezzato in due pezzi. I suoi stralli che si perdevano nel cielo sopra e pensi che sei su quella linea d’aria. Ma la luce è diversa, il contorno è diverso.

Le parole di Renzo Piano: “cianin, cianin”

“Cianin, cianin” – ha spiegato in genovese Renzo Piano per descrivere come cammina questo ponte nuovo, costruito in diciotto mesi, inaugurato due giorni fa, lanciato come un missile contro l’inerzia di tutto.

“Pianino, pianino” per non urtare gli equilibri di questa valle. Che sorvoli ora a 40 metri di altezza, una grande terrazza sul territorio martoriato di questa periferia. Che non si può più chiamare così. Ma che in qualche modo lo è. E che era spezzata e ora tu viaggi nella congiunzione di quei segmenti staccati. E hai pochi secondi per capirlo, per dargli una spiegazione.

E’ lungo un chilometro e sessantasei metri questo ponte nuovo di zecca. Tu lo percorri quasi senza respirare. Proprio come se ti fossi tuffato nel blu del mare che “fiancheggia” laggiù, sullo sfondo. E che quasi vedi, mentre “prima”, contornato dagli stralli, dai vecchi guard rail neppure ci pensavi.

“Cianin cianin” cerchi di girare lo sguardo. È tutta la valle che sembra più aperta e devi contenerla, quasi timoroso di perderti un particolare.

Il nuovo ponte di Genova come un tappeto morbido

Cammini come su un tappeto morbido. Più largo che nel passato. Le due corsie e quella di emergenza, che è una novità. E non senti i cupi rimbombi delle ultime volte sul Morandi, tra un cantiere e l’altro. Con gli operai appesi fuori a curare le ferite della struttura, troppo tardi, troppo tardi.

Non puoi non pensarci anche adesso che potevi esserci tu, un anno, undici mesi fa alle 11,36 del mattino del 14 agosto, a passare dove ora stai passando. E di colpo il vuoto si spalancava sotto le ruote, che ora scivolano leggere nella grande luce mediterranea del fulgore estivo.

“Questo ponte viene dopo una tragedia. E le tragedie, i lutti vanno elaborati, metabolizzati”- ha detto anche Piano nel suo discorso dell’inaugurazione. Durante la quale è parso come un gigante, un Mosè per questa città, la sua città alla quale indicava la strada fatta per costruire il ponte. Ma anche per affrontare questa vicenda di 43 morti, del lutto, delle sofferenze, delle fratture provocate dal crollo terribile.

I vertici dello Stato ascoltavano il senatore a vita

Stava dritto in piedi sull’asfalto nuovo di zecca, con le strisce appena dipinte, il senatore a vita Piano, 82 anni, alto, magro, sempre più magro, con la barba bianca. E tutto lo Stato italiano seduto ad ascoltarlo, in una riunione che mai si era vista in Italia.

Il capo dello Stato Mattarella, la presidente del Senato Casellati, il presidente della Camera Fico, il presidente del Consiglio Conte, la presidente della Corte Costituzionale Cartabia e dieci ministri, tutti con la mascherina, tutti seduti a distanza, sulla carreggiata che ora stai percorrendo.

E parlava anche con emozione visibile, questo architetto conosciuto in tutto il mondo. E confessava di dover trovare le parole giuste per un circostanza come quella per celebrare “il cantiere più bello nel quale io abbia mai lavorato” confessava.

E tu ti figuravi quante centinaia di cantieri in ogni angolo della terra aveva visto e ora era lì a raccontare che il più bello, il più pulsante era questo, a due passi da dove era nato, in mezzo al quartiere della Certosa, dove suo padre lo portava a passeggiare la domenica.

E tu ora stavi con il volante in mano e gli occhi pieni di quella luce proprio nel punto nel quale Piano aveva parlato. Pronunciando uno di quei discorsi che non si dimenticano. Che restano e che stanno dentro alla memoria di una città, di un popolo.

Elaborare il lutto, il ponte come segno di pace

“Elaborare il lutto, riconoscere il ponte come segno di pace, essere un costruttore di ponti di pace” – questo raccomandava l’architetto. Che aveva “tracciato” la linea della nuova costruzione, sopra i monconi del Morandi, nel percorso d’aria di quel ponte.

Spezzato dall’incuria dell’uomo, abbandonato a se stesso nelle sue mirabolanti evoluzioni strallate, nelle sue pile che erano marcite, nel ferro corroso dal tempo e dal sale del mare e dal vento. Sopra quel vuoto “spezzato” che ti accingevi ora a “coprire”, quei duecento metri fatali.

A quel punto non potevi non guardare in basso oltre ai guard rail bianchi, la barriera leggera, l’inferriata, i piloni, i 43 fari. Tanti come il numero delle vittime. E perderti nel ricordo, nella misura del dolore, dello straniamento di quel giorno che la notizia aveva percorso il mondo intero.

Il ricordo dell’altro ponte, spezzato nel cuore di Genova

Un ponte che si spezza nel cuore di una grande città dell’Europa civile e industrializzata. E i viaggiatori, scelti dal caso più terribile, che volano di sotto in un cumulo di macerie alte come montagne.

Ma il lampo della luce che arrivava dal Mediterraneo, dal tuo mare, in un giorno di agosto sereno e così diverso dall’incubo della tragedia, cancellava quel vuoto.

Ecco il nuovo ponte è quasi finito. Sull’altra corsia c’è già una lunga coda di Tir e di automobili dirette al centro di Genova. Sono nel cielo della Valpolcevera. Viaggiano sul San Giorgio. Riempiono il vuoto di quasi due anni. Bucano l’aria dove solo tredici mesi fa una grande esplosione aveva mandato in frantumi i resti del Morandi. In una grande nuvola bianca.

Tredici mesi. E tu stai usando leggermente il freno perché il ponte gira a sinistra per entrare nella galleria che era rimasta cieca per tutto questo tempo. E che ora si apre con le luci nuove, le pareti bianche, la volta rinforzata.

Una curva dolce, non l’anomalia che qualcuno ha voluto vedere per inficiare il lavoro di chi ha costruito il san Giorgio in diciotto mesi.

Il ponte è finito. Sei ancora abbagliato. Questo ponte è come una parentesi. Fuori code, corsie interrotte, traffico caotico, la città che ruota intorno. “Cianin cianin”? Ti sembra di avere volato da un punto all’altro, senza respirare.

“Questo ponte dovete amarlo” – aveva concluso Renzo Piano nel suo discorso di tre minuti e tu ti chiedi se la città ce la farà. Se l’elaborazione del lutto passerà anche attraverso a questo sentimento che è un po’ di riscossa, un po’ di orgoglio. Ma che resta di sofferenza.