Code, Genova ne muore, soffocano il nuovo ponte, i controlli dopo anni di abbandono

di Franco Manzitti
Pubblicato il 17 Luglio 2020 - 09:23 OLTRE 6 MESI FA
Code Genova ne muore, soffocano il nuovo ponte, dopo anni di abbandono

Code Genova ne muore, soffocano il nuovo ponte, dopo anni di abbandono

Tutto incomincia lì da quel ponte crollato in mezzo alla città. Portandosi via 43 vite spezzate ventitrè mesi e venti giorni fa, in una maledetta vigilia di Ferragosto.

Tutto comincia da quel calcestruzzo che si spezza come un grissino e apre la voragine. Ora che c’è il ponte nuovo quasi da inaugurare e nel frattempo trasformato in passerella e location perfetta per i selfie dei politici in arrivo. Matteo Salvini in casco giallo e giubbotto catarinfrangente. Giorgia Meloni la “Vispa Teresa” in saio anti calura e domani per tutti quelli che verranno alla cerimonia.

Ma intorno c’è l’inferno delle code che durano da un mese e mezzo. E circondano il nuovo scintillante ponte disegnato da Renzo Piano, progettato da Italferr, costruito da Fincantieri e We Build, cioè Salini Impregilo e controllato da Rina Consulting .

La cerimonia ci sarà l’8 agosto. Mattarella e qualche ministro del governo, con il premier in testa, apriranno le corsie al fiume delle code. Incombono da Ponente a Levante su questa meraviglia tecnologica, di acciaio scintillante, con 18 pile e una linea da chiglia di nave. E così si capirà bene perché tutto precipita intorno a questo ponte.

O meglio a questi ponti. Quello crollato nella tragedia più assurda della postmodernità genovese e quello nuovo, costruito in neppure un anno di lavoro, manco fossimo cinesi o giapponesi, alla faccia di tutte le difficoltà Covid compreso.

Finalmente i controlli ma anche le code

Si capirà che queste code, che paralizzano il traffico perfino nel cuore di Genova, sono la conseguenza di quel crollo. Perché innescate dai controlli della magistratura sullo stato della manutenzione della rete. E sui mal di pancia di Aspi, la società che possiede Autostrade.

E che ha aspettato per giorni, mesi, anni che il Governo tagliasse la testa alla sua concessione. E provocasse il più clamoroso processo dell’ultimo decennio tra risarcimenti, licenziamenti e danni incommensurabili al gruppo dei soci, capeggiati dai Benetton.

Ma più in generale al sistema concessionario che dagli anni Novanta del secolo scorso ha passato la rete autostradale dallo Stato a privati. Rivelatisi disastrosi nella manutenzione, in parallelo con i governi di ogni coalizione e colore. Che non hanno mai controllato i lavori, obbligati sulle autostrade da leggi dello Stato e da Direttive europee.

La revoca non è arrivata, ma una sorta di esproprio sì. E ora tutta la politica girà li intorno ai due ponti, quella di maggioranza un po’ esultante, un po’ meno quella di opposizione, urlante al pastrocchio, mentre il titolo di Atlantia, la holding del gruppo, vola in borsa.

Tutto parte da quel ferragosto di 2 anni fa

Tutto parte da quella voragine del 14 agosto 2018 e dalle sue conseguenze. Che potevano essere anche una crisi di governo nell’era post Covid per le diverse visioni che il Conte bis aveva (ed ha) di questa maledetta concessione. Che i 5 Stelle intendevano fare a pezzi da tre ore dopo quel tragico crollo.

E il Pd, in qualche modo, proteggeva ancora, con la postilla incendiaria pochi giorni fa di avere affidato alla stessa Aspi il controllo del neonato ponte. Quando i collaudi saranno terminati e dovrà essere collegato al resto della rete. Chi lo gestirà?

Una Pubblic Company con la Cassa Depositi e prestiti, qualche fondo potente. E i Benetton retrocessi al 10 per cento, “espropriati” nella loro visione, fatti fuori. Ma non abbastanza, come urlano i comitati pro revoca e, nel sottofondo doloroso, i parenti delle vittime.

Tutto gira intorno a quel ponte, a quella voragine mentre intorno il traffico impazzisce da oramai più di un mese, ogni giorno di più e la tensione sale, sale.

Un ponte nuovo ma tante  vecchie code

Fanno un ponte nuovo per poi riempirlo di code, provocate dalle manutenzioni straordinarie, eseguite da Aspi, con il Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture che sapeva tutto da gennaio. Ma non aveva trattato con la Regione. E qua siamo nel pieno fuoco di una campagna elettorale regionale. Per la quale il candidato numero uno, Giovanni Toti, presidente uscente, ex speaker di Berlusconi, oggi primo accompagnatore di Salvini e di Meloni sulla passarella, pensava di partire proprio sull’asfalto nuovo del ponte di Renzo Piano. E dei mille “garibaldini” che l’hanno costruito in meno di un anno.

Bandierine, inni, una musica dal basso suonata da una grande orchestra e questa immagine scintillante del nuovo viadotto: cosa vuoi di più per lanciarti verso una riconferma?

Invece il disastro ligure, dell’economia fatta a pezzi dal traffico impossibile, il turismo a meno 40 per cento dell’anno prima, i tre grandi porti liguri in picchiata verticale di traffici, l’irraggiungibilità per terra, ferrovia,, mare, dell’arcobaleno ligure, colorano questa campagna elettorale post Covid. Con il voto a cavallo della ripresa scolastica di ben altri toni.

Manifestazione a Roma, vietata

Tutto gira intorno a quel ponte spezzato e rigenerato, soprattutto gira la rabbia dei genovesi e dei liguri, di quaranta categorie e associazioni produttive. Hanno preparato una marcia su Roma per il 22 di luglio con Tir, camion, auto, treni, per circondare Palazzo Chigi e Montecitorio della furia genovese. Dalla Confindustria Liguria, alla Camera di Commercio, agli albergatori, agli spedizionieri, a tutte le categorie che ruotano nell’universo ligure, traffici, affari, accoglienza, collegamenti…..

Sette ore per arrivare da Como a Recco, cinque ore per scendere sulla A 26 da Ovada fino a la Spezia. Una gimkana infernale da Genova a Savona. Sempre sulla stessa corsia, autotrasportatori ridotti a turni impossibili e imprevedibili. Stabilimenti balneari con la clientela dimezzata e il diluvio delle disdette: io in Liguria come ci arrivo?

E Roma ha risposto no. Nessun permesso alla grande manifestazione, che avrebbe portato quella rabbia, quella furia, quei miliardi andati in fumo. Dalla pensioncina in riva al mare. Alla grande compagnia di navigazione, che ora sceglie i porti nel Nord Europa. Alla miriade di business grandi e piccoli legati al turismo.

E tutto questo dopo il Covid, il deserto ovunque, gli alberghi, i bar ristoranti chiusi e poi i primi timidi segnali di ripresa, strangolati dal secondo lockdown.

Tutto gira intorno a queste autostrade liguri, tra le più vecchie d’Italia. Costruite a incominciare dalla mitica Camionale mussoliniana degli anni Trenta, da Serravalle a Genova, seconda per vecchiaia solo alla Milano-Laghi.

Hai voglia scagliarti contro chi non ha più fatto nulla dal 1977, anno dell’ultima inaugurazione dell’ultimo tratto della A26, Genova-Gravellona Toce!

Colpe, ce ne è per tutti

Le colpe arrivano fino ad oggi e investono anche gli ultimi amministratori pubblici. Quelli che si sono lasciato spezzare sotto gli occhi il Morandi. Ma anche mangiare fino all’osso il calcestruzzo delle 250 gallerie del territorio ligure.

Eppure due anni fa l’allarme era suonato per tutti con la tragedia del Morandi. E un anno fa la Procura della Repubblica aveva avvertito chiaramente. Dopo avere scoperto i primi report sospetti. Se scopriamo fragilità, debolezze, mancati controlli, segnaliamo subito a Autostrade e se non intervengono…….

Hanno incominciato a intervenire a maggio, dopo averlo deciso a gennaio, dopo che l’allarme questa volta l’aveva suonato il Ministero dei Trasporti. Messo in mora dalle disposizioni regionali che imponevano controlli nelle gallerie di tutta la rete continentale.

Eravamo già in ritardo. Nel frattempo era crollata, alla fine del 2019, la volta della galleria Bertè sulla A 26, con una bomba di 2,5 tonnellate di cemento sulla corsia. Un miracolo aveva impedito che ci fossero morti. In quell’attimo non passavano ne auto né Tir.

Il Ministero ha accelerato, adottando una nuova procedura copiata dai francesi, controlli sulle “onduline”, lo strato metallico che fa da soffitto alle gallerie.

Poi è scoppiato il lockdown, autostrade chiuse, raro traffico, corsie praticamente vuote, sarebbe stato il momento migliore.

Ma la macchina dei controlli si era appena messa in moto. E quel tempo è più servito a organizzare che a incominciare a picchettare le onduline delle 250 gallerie liguri, che sono state le prime di tutta la rete italiana.

Perché le prime? Non solo perché erano tra le più antiche. Ma perché lì stava picchiando l’inchiesta del maxi processo Morandi, con i blitz della Finanza, 70 indagati per la manutenzione del ponte, decine di report, montagne di intercettazioni.

Dal Ministero un super controllore

Il Ministero aveva pure nominato un supercontrollore, Placido Migliorino, storico funzionario ministeriale, per spingere i controlli.

E così siamo arrivati alla fine del lockdown e alla riapertura dei confinamenti regionali, con le auto e il traffico che sono tornati in pista. Proprio mentre la rete dei controlli stringeva tutte le sue maglie con una coincidenza diabolica.

Tutto gira intorno al ponte della tragedia. A quello della ricostruzione. All’inaugurazione del prossimo 8 agosto e del secondo anniversario della tragedia, il 14. Quando la cerimonia sarà particolarmente toccante e quando non si sa cosa avverrà intorno al nuovo ponte. Che quasi sicuramente si chiamerà San Giorgio.

Se il traffico sarà ancora strangolato. E le code saranno i primi passeggeri di quel chilometro e 107 metri del nuovo percorso, nel cielo della Valpolcevera, da un lato all’altro di quel pezzo di Genova che da due anni è come in croce.

Arriva il nuovo arcivescovo

In questo clima si potranno allora trarre benefici positivi dall’arrivo del nuovo arcivescovo di Genova, appena insediato, il frate conventuale Marco Tasca, il 114 esimo successore di San Francesco nel suo Ordine. Ha appena preso il posto del cardinale Angelo Bagnasco, andato in pensione per limiti di età.

Il francescano arriva a Genova quattro secoli dopo che un religioso si era insediato nella cattedra di Genova, poi sempre occupata da “secolari”. Ha il saio e portava i sandali e non avrà a meno di sorprese la berretta cardinalizia. Che gli arcivescovi di Genova hanno sempre ricevuto dopo il loro insediamento nella cattedrale di san Lorenzo.

I nuovi equilibri “francescani” del Sacro Collegio escludono la nomina di cardinali italiani e favoriscono quella di chi sta in altri continenti. Nè Venezia, nè Torino, né Palermo hanno più il cardinale.

Per Genova è, comunque, un’altra perdita, ma ci si augura che possa essere compensata, in un tempo così difficile e arduo, di grandi sofferenze, dagli effetti positivi di una nuova gestione, senza togliere nulla a quella precedente di Bagnasco, un cardinale che ha presieduto anche la Cei per ben dieci anni, dopo Camillo Ruini, e che è tutt’ora presidente dei vescovi europei. Frate Frasca dedicherà tutto il suo tempo ai genovesi, che ne hanno bisogno. Più che mai.