Costa Concordia. Genova che si spegne aggrappata alle luci del relitto

di Franco Manzitti
Pubblicato il 31 Luglio 2014 - 08:08 OLTRE 6 MESI FA
Costa Concordia. Genova che si spegne aggrappata alle luci del relitto

La Costa Concordia al suo ultimo ormeggio nel porto di Voltri-Pra è anche l’ultima speranza per Genova

GENOVA – La Costa Concordia è ormeggiata nel porto di Prà-Voltri e aspetta la prima fase della demolizione che porterà due anni di lavoro a Genova. Ma intorno la città vacilla tra chiusure e scandali.

Rischia il Ko l’Acciaieria Ilva di Cornigliano dove oramai lavorano solo 1750 operai dei quali 1450 con contratti di solidarietà.
Cinquecento negozi, bar e ristoranti chiusi in quattro mesi. Negli stabilimenti balneari il 30% in meno di clienti.

La Fondazione Carige vale solo 90 milioni di euro da 1, 3 miliardi che pesava due anni fa, ma i suoi consiglieri guadagnano sempre di più in gettoni di presenza: 1.100 euro a seduta. E la crisi moltiplica le sedute di 26 consiglieri di indirizzo e di 10 consiglieri di amministrazione.

Stanno tutti aggrappati alla Concordia Costa Carnival, finalmente diventata un relitto da demolire, da nave delle meraviglie prima e della sciagura dopo. Stanno, i genovesi, intorno a quei 295 metri ormeggiati al molo di Levante del Porto di Prà-Voltri, periferia orientale della città che questa nave ha modificato perfino nella geografia.

Sì, perchè oggi la Genova che respira, che spera, che cerca di rilanciare sta qua nel Ponente portuale e operaio, sulle banchine di un porto-satellite, fatto di sei moduli, carico di container e intorno il deserto.

Deserto di fabbriche vuote o stracassintegrate, come l’Ilva di fu Emilio Riva, che il giorno dopo il Grande Ormeggio di Concordia entra definitivamente in crisi con i suoi 1.750 operai, dai 7.000 che c’erano fino a quindici anni fa, di cui 1.450 sono già “in contratto di solidarietà” e asfalta la fu più grande acciaieria del Dopoguerra italiano, spolpando quello che fu anche l’Eldorado dell’acciaio ex Italsider, il mare riempito per costruire tra il 1930 e il 1979 il primo ciclo integrale della storia industriale italiana.

Un altoforno a caldo, spento nel 2006, una cokeria spenta e demolita subito dopo, restava il”freddo” e un piano per far restare il ragiunatt Riva e la sua family a Genova ancora per novanta anni, concessione firmata dal Governo, dal Comune, dalla Provincia, dalla Regione, un cadeau con il fiocco delle aree industriali più pregiate del Nord Ovest per le banchine sul mare, dove le navi dell’acciaio erano tanto importanti nel loro viavai che perfino il “cono aereo” del vicino aeroporto era condizionato.

Il “sale “ di Genova, che le ultime botte all’Ilva stanno spargendo nel vuoto: ci vogliono 12 milioni di euro entro la fine di agosto 2015 per pagare la cassa in deroga ai dipendenti dell’acciaio. Ecco il prezzo della pace sociale intorno all’Ilva e a questo Ponente aggrappato alla Concordia, il catafalco celebrato dalle passerelle di fine luglio, che non si doveva dire che erano passerelle, ma che altro erano?

Dal premier Renzi Matteo in scarpe tricolori, ai ministri, agli ammiragli, ai grand commis di Stato e anche ai grandi eroi della Protezione Civile, tutti scherati a garantire i milioni di euro di lavoro che la demolizione Concordia porta a Genova.

Dodici milioni per far stare in piedi l’acciaio dell’Ilva ancora qualche mese contro il milione di acciaio e companatico che si tira fuori “alleggerendo” la Concordia, con due anni di lavoro, 350 uomini a bordo e almeno altrettanti a terra a scaricare, muovere l’operazione più grande di smontaggio che si ricordi e che solo Genova era capace di portare a casa.

Con tutte le garanzie ambientali, di perizia marittima e di capacità imprenditoriale nella demolizione della neonata società ad hoc, costituita dalla Saipem (maggioranza Eni), dai cantieri san Giorgio e dai cantieri Mariotti, genovesi doc.

Ecco perchè stanno tutti aggrappati alle murate della Concordia, quelle grigie e gonfie, che osservi con il cuore stretto dalle passeggiate a mare di Pegli e di Prà e quelle solo screpolate che i cassoni del supergalleggiamento distanziano dalla banchina di Levante di questo porto.
Concedono grandi interviste ai giornali locali il presidente della Regione Claudio Burlando, democrat in quasi scadenza di mandato, ex sindaco, ex ministro e, soprattutto, figlio di un camallo della mitica Culmv, e il presidente dell’Autorità Portuale, Luigi Merlo, rivendicando una bella fetta del merito di avere portato qua la Concordia.

E annunciano un futuro un po’ più roseo per il business della demolizione, che potrebbe essere lanciato dalla grande sciagura, trasformata in un’operazione eroica da Nick il sudafricano “magico” e dal prefetto Gabrielli della Protezione Civile.

Se la nuova normativa europea andrà in esecuzione e i criteri di demolizione delle navi in disarmo dovranno rispettare i canoni ambientali e di smaltimento che l’operazione Concordia ha appena incominciato a garantire, qua fuori dai moli di Prà-Voltri ci sarà la fila e il porto ingrasserà in un settore nel quale la competenza genovese è da sempre imbattibile.

Se…Ricordate quel celebre film inglese anni Settanta intitolato, appunto, “If”…, “Se” tutto questo succederà. E se non succederà…?
Intanto i maggiorenti genovesi e liguri cercano di suonare questa grancassa anche perchè il resto dell’orchestra marittimo-industriale batte solo toni bassi e gravi, quelli della rapida e verticale decadenza di un modello sul quale la crisi globale, giunta qua al suo settimo anno consecutivo, si sta abbattendo con una virulenza impressionante.

L’Ilva è solo l’ultimo grano di un rosario infinito, altre che i cinque misteri del Santo Vangelo.
Sempre in quel deserto del Ponente ligure ha da tempo annunciato la chiusura lo stabilimento della Piaggio Aerei, oggi di proprietà americana, prima di una delle famiglie storiche genovesi, la stessa della Vespa e di un vero impero imprenditoriale-finanziario: dalla Miralanza, ai Cantieri, alle navi, Rocco e Armando Piaggio, nomi leggendari come Gaslini, come i Perrone dell’Ansaldo, come i Rubattino, come i De Ferrari della mitica munificenza di fine Ottocento…

Quella fabbrica si trasferisce nella zona di Albenga e i cortei di protesta dei quasi 500 operai infiammano le strade della città.
Sempre in quel deserto di Ponente è in crisi Esaote, la azienda che produce macchine moderne per la sanità, nata con un management by out dell’Ansaldo, inventata da Carlo Castellano, il professore istancabile, ferito negli anni Settanta dalle Br, che trasformò la sua dolorosa degenza dopo la sparatoria in una riflessione che portò poi a concepire l’ azienda per costruire sofisticate apparecchiature.

Rischiano i dipendenti che aspettavano di traslocare sulla collina delle speranze infrante genovesi, Erzelli, polo del futuro e sempre più ipotetico high tech, con Siemens, Eriksson già insediate malgrado la crisi e i tagli e anche forse IIT, cioè l’Istituto Italiano di Tecnologia, incubatore di robot e delle invenzioni di Archimedi Pitagorici di mezzo mondo, un altro grano del rosario infinito genovese.

Il trasloco Esaote si è fermato e – altro sintomo esemplare della Grande Crisi – addirittura si rimodifica il Piano Regolatore della città, perchè al posto di quella fabbrica, che saliva in collina tra i giganti high tech, era stato predisposto un altro insediamento commerciale delle Coop, convertendo la licenza industriale con un altro titolo.

Il grano del rosario chiamato Erzelli è il più pungente, perchè li stava il futuro postindustriale genovese, appunto una collina sopra l’aeroporto sul quale la città, le sue teste pensanti, i suoi amministratori e sopratutto la sua high society accademica, discute invano e si scanna da anni.

Anni nei quali la crisi ha rosicchiato i presupposti fondamentali, trasformando il progetto high tech con annesso campus universitario, mano a mano in un insediamento diverso, con larghe quote di residenziale, sempre sospeso alla presenza dell’ Alta Scuola di Ingegneria, il nuovo Politecnico. L’Università non è riuscita a decidere il trasloco per il costo alto della manovra e per le indecisioni endemiche di una classe dirigenziale impaurita dalla crisi e dal futuro.

Così gli ingegneri sono rimasti nella villa da sogno nel quartiere chic di Albaro e nel Ponente deserto di lavoro e industrie oggi Erzelli è una collina degli spiriti, i grattacieli costruiti o in costruzione semivuoti , i raccordi infrastrutturali che ondeggiano tra la futuribile ovovia che salirebbe da Sestri Ponente e l’attuale nuova strada riampliata e ammodernata, quella ai piedi della quale Burlando, già governatore della Liguria, commise nel 2007 quel tragicomico contro mano che ne mise a repentaglio la carriera.

Se il Ponente sgrana il suo rosario di incompiute o di chiusure o di salvezze miracolose, come quelle di Fincantieri, il grande cantiere delle navi come la Concordia, il resto della città “capovolta” verso i moli di Voltri-Prà dall’Evento della demolizione, che fa questo resto della città?

Il palazzo è scosso sempre dagli scandali della Carige, la banca-cassaforte decapitata nei suoi vertici, trafitta dai rapporti di Mediobanca e poi dalle inchieste della magistratura sull’ex vertice e sopratutto sull’ex doge genovese, il potentissimo Giovanni Alberto Berneschi, passato dal ruolo di presidente-dio a quello di superimputato, accusato di avere accumultao alle spalle della sua banca una fortuna di decine di milioni di euro, accatastati con manovre spericolate di compravendita e di trasferimenti di capitali in Austria e in Svizzera.

Ogni giorno esce uno scoop sulle malefatte di Berneschi e della sua cricca, in una città che di lui non ha mai sospettato e che bussava in processione alla sua porta. Lo temevano perchè era il leader di una lobby fortissima, che spazzava via chiunque e che faceva diventare Carige la sesta banca italiana, da 70 a 700 sportelli e il raddoppio Carige Italia dopo Carige Genova..

L’ultimo scoop è la scoperta nelle sue cassette di sicurezza di gioielli e orologi per milioni di euro. La Finanza ha sequestrato tutto perchè vuole arrivare a congelare almeno 50 milioni di euro dei beni dell’ex presidente per ripianare i danni che il “doge” avrebbe provocato alle casse della banca.

Che ne voleva fare di questa montagna di soldi da Paperon de Paperoni, se poi viveva come un francescano? Forse diventare un azionista decisivo – mormorano i più informati, mentre i nuovi manager, Giampiero Montani ad e il presidente ambasciatore, principe Cesare Castelbarco Albani, cercano di rimettere in piedi la cassaforte rovesciata.
E su questo panorama che, visto dalle murate da demolire della Concordia, sfuma perfino, non c’è solo il caso Carige, ma ovviamente anche quello della relativa Fondazione, fino a pochi mesi fa propietaria della banca al 43 per cento, oggi scesa al 15, con un valore che si è polverizzato da 1, 3 miliardi di euro ai 90 milioni di oggi.
Tanto è costato il crollo del valore delle azioni di Carige. Due anni fa valevano quasi quattro euro, oggi sono scese tra i trenta e i quaranta centesimi…….

Il bilancio della Fondazione ha chiuso con un meno 916 milioni. E ora si scopre che in questo anno di crisi catastrofica i consiglieri di amministrazione e di indirizzo si beccavano emolumenti, gettoni di presenza, da 1.100 euro a seduta a testa, facendo impennare i costi della struttura a 1,4 milioni di euro, mentre le casse si prosciugavano.

La crisi faceva aumentare le sedute, le moltiplicava come il vino alle nozze di Cana e le tasche dei consiglieri si riempivano. Si tratta di 26 consiglieri di indirizzo da 1.100 euro a seduta e di 10 consiglieri di amministrazione da 300 euro a seduta.
Nella voragine del buco Carige è uno scandaletto, ma per l’opinione pubblica un abisso da paura, quello nel quale per miracolo non è affondata con i suoi quattromila passeggeri e uomini di equipaggio la Concordia.

“Una Fondazione costretta oramai a erogare solo pochi milioni, spiccioli, che ne paga quasi uno e mezzo per mantenere il suo personale” – ha denunciato uno dei due consiglieri di indirizzo, Giulio Treccani, che con Graziano Mazzarello, altro consigliere,anziano leader del Pci-PDS-DS-PD, aveva proposto di tagliare del 50% per cento i compensi.

Gli altri non hanno risposto e il presidente della Fondazione, Paolo Momigliano, un avvocato cireneo che si è preso sulle spalle la croce, è rimasto in mezzo al guado.

Il tessuto genovese è strappato, liso, non tiene più nulla: Confesercenti ha sparato la sua ultima statistica che segna negli ultimi mesi quasi cinquecento chiusure di imprese commerciali. Una strage di negozi, di ristoranti e bar, chiusi per sempre, di saracinesche abbassate in ogni quartiere.

Il quartiere di Piccapietra, quello celebre perchè c’è la statua di Balilla, il ragazzo Giovanni Battista Perasso, che scagliò una pietra contro gli austriaci invasori, pronunciando in dialetto la storica frase della eterna ribellione genovese: “Che l’inse” (comincio?), è oramai un cimitero nel centro della city.

Chiudono a raffica boutiques e negozi fino a ieri a la page. Chiedono strada i cinesi e le sale da gioco e da scommesse. Quasi una profanazione che dovrebbe moltiplicare per mille i Balilla del terzo millennio. Invece a Piccapietra tutto si spegne, non solo le luci di sera.

Cosa resta nel cuore di una estate maledetta, che non sembra essere mai arrivata climaticamente? Resta perfino il crollo dell’oltre 30 per cento di presenze negli stabilimenti balneari, massacrati dal tempo inclemente.
E allora si scappa a ponente e ci si aggrappa alla Concordia, al suo maxirottame. Lì, almeno, in attesa dei demolitori qualche luce è ancora accesa.