Funerali a Genova del nigeriano suicida: folla, ex ministri, lacrime del cielo

di Franco Manzitti
Pubblicato il 2 Febbraio 2019 - 17:46| Aggiornato il 5 Agosto 2019 OLTRE 6 MESI FA

 

La lunga strada di Prince Jerry Igbmosa, 25 anni, studente di chimica, finisce sul pavimento di marmo di questa grande chiesa dell’Annunziata, nel cuore di Genova, oltre le grandi colonne, davanti a una folla di migliaia di fedeli e non fedeli. Sta lì, dentro a quella bara di legno chiaro in mezzo ai fiori, Prince, studente di chimica, suicida sotto il treno a Tortona perché gli erano stati negati i documenti dalla nuova legge di sicurezza, negati a lui, che era qua da due anni, perfettamente integrato, volontario, studente, amico di tutti e si era visto sbattere fuori.

Finisce qua la lunga strada, da casa sua, lontana 4.000 chilometri da qui, in Nigeria, dalla quale non si poteva che scappare, la guerra, la fame e allora il viaggio, il deserto, la Libia, il barcone, gli scafisti, il viaggio e poi la grande illusione di avercela fatta in questa città di mare, in mezzo ai migrantes di don Giacomo Martino lassù a Coronata, il grande centro della speranza di integrazione.

Lassù proprio sopra a dove è caduto il ponte maledetto, che lo vedevi dall’alto della collina genovese e chissà quante volte lo avrà visto anche Prince, mentre lavorava o aiutava gli altri, o stava insieme agli altri, la comunità nigeriana e i fratelli immigrati?

“Chi è povero cerchi il Signore, che certo si farà trovare”, dice il salmo 69, che cantano nella chiesa piena di quella folla, mentre entra il corteo funebre, che sembra un altro mondo e che non riesce a contenere quasi chi è venuto a salutare Prince, a piangere Prince, a ricordare Prince e tutti quelli come lui, che ora sono sbandati, disperati, abbandonati senza carte, senza neppure un documento e che magari non sanno come fare a andare avanti e ora guardano al suo gesto estremo di togliersi la vita sbigottiti, inpauriti, stravolti.

Si è fatto trovare il Signore da questo povero della Terra, che arrivava da tanto lontano, che aveva camminato e sofferto e ora sta ai piedi dell’altare chiuso nella sua bara con gli amici che piangono, i fiori bianchi che passano di mano in mano tra le navate, tra i banchi pieni di una folla indistinta, amici, sconosciuti, bianchi, tanti neri in fila nelle sedie, politici polverizzati nella folla di una sinistra che non si presenta più insieme, perfino l’ex ministro Roberta Pinotti, l’ex sindaco Marco Doria laggiù in fondo alla chiesa, Luca Borzani l’ex presidente di palazzo Ducale contro una colonna della navata sinistra, credenti che pregano ad alta voce, atei che è come se pregassero. Tutti insieme qua, con il cuore chiuso come un pugno per quei morti in mezzo al mare, per quei porti chiusi e ora per quelli come Prince, che pensava di avercela fatta a uscire dal suo mondo di odio, guerra, fame e deserto e ce l’aveva fatta, ma lo hanno ributtato fuori, come dalla nave Diciotti o come quell’ altra, la Sea Trade, due anni di integrazione ridotti a uno straccio di carta strappato sotto il naso e quel treno sotto cui buttarsi per cancellare ogni cosa.

Ma è un funerale questo, in questa gelida mattinata di Genova, con la pioggia ghiacciata che bagnerà all’uscita la bara di Prince? O è un altra cosa, in questo silenzio di morte e di rabbia, che sale dalle navate, arriva all’altare dove celebrano in venti preti questa cerimonia mai vista per uno degli ultimi, un migrante senza carte, documenti, solo il suo nome, Prince Jerry? Poteva sembrare il funerale di un grande, di uno noto, di un personaggio pubblico e, invece, è l’addio a Prince che lottava per avere qua una casa, un letto, un piatto di minestra calda, magari un lavoro, lui che studiava, che aveva imparato bene l’italiano e lo traduceva per gli ultimi arrivati della sua razza o delle altre, spinti dai cataclismi della migrazione.

Celebrano e pregano in italiano, francese e inglese don Giacomo Martino, l’amico di Prince, il responsabile dei Migrantes e gli altri sacerdoti, tra i quali i preti forti della solidarietà, come don Marino Poggi, il direttore della Caritas, quello che andò in missione a Cuba o don Maurizio Verlezza, il salesiano che dirige la grande città di Don Bosco, quasi sotto Coronata, l’ultima patria di Prince?

Quante ne hanno viste don Marino e don Verlezza di miserie e disperazioni degli ultimi e ora sono qua nelle onde di questa chiesa, in mezzo a un funerale che non lo sembra, con le pareti della Basilica grande e illustre, che sembrano non esserci quasi. Come se lo scenario fosse molto più largo, fosse la strada che ha fatto Prince per arrivare qua da laggiù e intorno gli uomini che lo hanno aiutato e quelli che lo hanno fermato.

È un funerale di un’ora di lacrime e preghiere e canti un po’ soffocati, che incomincia con le parole di don Giacomo:

“Siamo qui a pregare di fronte alle nostre incapacità di affidare i sogni come quello di Prince….siamo qui a chiedere perdono per Prince, per il nostro cuore malato, chiuso, di pietra, mentre chiediamo al Signore di darci un cuore di carne.”

Ma in questa chiesa nessuno sembra avere il cuore di pietra, anche se non è solo come assistere a un funerale, ma a qualcosa di diverso, anche se don Giacomo Martino, braccio destro del cardinale di Genova, Angelo Bagnasco, l’ha detto chiaro, che non voleva strumentalizzazioni, non voleva che quel gesto disperato di Prince, davanti agli uomini con il cuore di pietra, fosse trasformato in una speculazione politica. Cosa c’è dentro l’animo umano, cosa può portare tanto a fondo nella disperazione fino a togliersi la vita? Che mistero insondabile è quel confine sottile che Prince ha saltato sotto il treno?

No a strumentalizzazioni, fanno capire con la liturgia di quei venti sacerdoti ad alternarsi sull’altare in italiano, in inglese, in francese, nelle formule della Messa e anche nell’omelia.

Ma poi il Vangelo scelto è quello di san Luca, che parla del buon Samaritano, di quell’uomo reietto da tutti, che soccorre un suo fratello picchiato, aggredito dai briganti e lasciato sulla strada.

Prima era passato un sacerdote e non aveva soccorso quell’uomo ferito, abbandonato, depredato, poi alla fine passa il Samaritano e soccorre il fratello, gli lenisce le ferite, lo solleva, lo porta in salvo, lo tocca.

Ecco il gesto che oggi, in questa chiesa, ha tanti significati, magari anche politici, nell’omelia di don Giacomo. Toccare il diverso, toccare lo straniero, è come dire accoglierlo, aiutarlo. Quello che non ha fatto il primo passante, chiuso nella sua forma di difesa della purezza formale, che aveva paura, appunto, dell’impurità.

E allora chi ha toccato Prince e poi chi lo ha abbandonato? “Chi è il prossimo, si chiedono dall’altare, in italiano e in inglese, Gesù non dà risposte a questa domanda”, alza la voce don Giacomo. La risposta bisogna trovarla da soli, ecco la strumentalizzazione vera di questo funerale, di questa folla, che sta dentro alla grande chiesa, che partecipa per dire solo con la sua presenza che il prossimo è li, puoi toccarlo come durante la Messa, quando stringi la mano a tutti nel segno della pace, anche agli amici di Prince, che stanno piangenti dietro la bara e non si stancano di sistemare i fiori.

“Non ci sono differenze, non ci sono mondi diversi, Prince credeva in questo, non nelle differenze”, racconta dal pulpito don Giacomo. Gesù tocca il lebbroso che nessuno voleva toccare e lo guarisce come il buon Samaritano tocca il fratello ferito, depredato. Gesù aveva toccato la vita di Prince, le sue ferite. Bisogna avere il coraggio di prendergli la mano, questo vuol dire essere salvato, trasportato curato……”

Il prete dall’altare non lo dice, ma la domanda rimane sospesa e chiara: “Chi non ha trasportato, portato in salvo il povero ragazzo nigeriano che era arrivato a casa nostra? Forse gli uomini con il cuore di pietra?

“Non è bastato imparare il suo nome, gli abbiamo voluto bene, ma forse non abbastanza, dice don Giacomo nell’omelia di questo funerale, che non è solo il funerale, ma non è neppure un atto d’accusa a quelli che hanno spinto Prince a togliersi la vita, perché questa è la forza della Chiesa di restare nel suo ambito. “Forse non abbastanza” ripete e un po’ si commuove, ricordando gli ultimi messaggi, che lui e i suoi amici si sono scambiati con il ragazzo della Nigeria, che erano come messaggi finali, quando Prince aveva capito che stava per finire, che perfino voleva farsi perdonare qualcosa, che non c’era un Samaritano che lo raccoglieva ferito. Poi l’ultimo messaggio quasi una addio terribile, prima di gettarsi sotto quel treno: “Mi dispiace”.

Ora non ci sono più riserve nel funerale, che è altro, molto di più: “ Lo straniero deve essere aiutato, tutti siamo stati stranieri, tutti siamo stati allontanati, messi da parte, a scuola, all’Università, nel lavoro, perfino nel coro dove ci hanno detto di non cantare che sei stonato……. Spesso alziamo la voce, usiamo il linguaggio dei briganti, più si grida, più i cuori si allontanano. “

“Ora noi dobbiamo andare a toccarla quella bara “, dicono dall’altare per sottolineare che il sogno di Prince può continuare, che bisogna ripetere che non bisogna avere paura. Andiamo a dire a quelli che hanno paura dello straniero che Genova non ha paura del prossimo. “

Poi la bara esce sulle spalle degli amici, con un corteo dolente dietro e la grande folla genovese che stenta a uscire dal grande portone sotto l’acqua gelata. E il pianto si trasforma anche sulle scale del sagrato in urla di rabbia che salgono verso il cielo grigio, luttuoso di Genova.