Genova. 40 giorni, il Diluvio. Bare di Bolzaneto, card. Bagnasco: Messa solenne

di Franco Manzitti
Pubblicato il 21 Novembre 2014 - 08:16 OLTRE 6 MESI FA
Genova. 40 giorni, il Diluvio. Bare di Bolzaneto, card. Bagnasco: Messa solenne

Genova. 40 giorni, il Diluvio. Bare di Bolzaneto, card. Bagnasco: Messa solenne

GENOVA – Ci sono poche centinaia di metri tra l’apocalittico cimitero della Biacca,  nella delegazione genovese di Bolzaneto e questa grande chiesa moderna di Nostra Signora della Neve, dove il cardinale Angelo Bagnasco è venuto a dire una Messa soprattutto in suffragio dei morti che la Grande Alluvione ha strappato dalle loro tombe e spinto nei torrenti straripati, fino al mare fangoso e putrefatto della tempesta.

Ci sono sei sacerdoti con i paramenti viola del lutto sull’altare glabro del tempio postmoderno, intorno alla porpora di sua Eminenza il presidente della Cei e davanti la gente di questo pezzo della città stravolto da un evento tanto “forte”, tanto inatteso come se la Madonna della Guardia, protettrice della città Superba, il santuario sul Monte lassù, proprio sopra Bolzaneto, avesse distolto il suo sguardo.

C’è nella sera buia di novembre, che cala dai monti, una specie di raccoglimento diverso, che coglie anche chi non crede in Dio, nella sua religione, nel cimitero, nella resurrezione della carne, nei dogmi della Chiesa, che arriva qua dolente, benedicente come se avesse, però una mano sugli occhi, a scacciare l’immagine choccante di quelle bare, di quegli ossari, settanta, che la valanga di acqua e fango ha portato via dalla terra benedetta e consacrata, dove il rito pietoso della sepoltura li aveva sigillati in attesa dell’eternità e, appunto, della Resurrezione.

“Il Papa ha detto oggi che Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la natura mai?” ha chiesto un giovane cronista al cardinale che entrava nella chiesa per celebrare la Messa di requiem inimmaginabile perchè in suffragio di anime il cui corpo è stato violentato dopo la morte, appunto, dalla furia della natura.

“Quando si innescano disordini della natura scatenata da un interesse umano, prima o poi lo squilibrio si rivolta, andiamo a pregare perchè non accada più e per stare vicina a chi ha sofferto”
aveva risposto il cardinale dalla processione che entrava nella chiesa.

E più tardi dal pulpito, nella sua omelia, il cardinale arcivescovo sarà anche molto più diretto, duro con i responsabili e pietoso con le vittime, denunciando l’incuria degli uomini, chiedendo interventi immediati, invocando l’ olio della “consolazione”.

Sarà una predica breve e in qualche modo lancinante per quel cimitero dove adesso non si può neppure entrare perchè ci sono le frane e il disastro da fine del mondo di quelle tombe scoperchiate e tra il popolo di Bolzaneto che siede in silenzio, composto, ci saranno lacrime asciutte e dolori sobri, dignitosi, nel riserbo della gente ligure che aveva un suo caro sepolto là dentro, alla Biacca, il cimitero “circondato” dal torrente Barrio, un piccolo affuente del torrente Polcevera, che taglia la valle post industriale di Genova, quella che partiva con le raffinerie del petroliere Garrone e scorreva fino ai grandi stabilimenti dell’Italsider, dell’Ansaldo, alle altre fabbriche dove il regno d’Italia di Vittorio Emanuele e

Cavour avevano piazzato il destino industriale dell’Italia.

Bagnasco descrive, tenendo ben saldo il suo bastone pastorale in mano e con la mitria calzata sulla testa, “il flagello” dell’alluvione che ha distrutto le case, le strade, il lavoro degli uomini.

Per un attimo si ferma e poi continua:

“…A queste tribolazioni dobbiamo aggiungere la violazione delle tombe, la dispersione dei defunti, le tombe non risparmiate dalla furia della natura. Questa è una ferita intima….I corpi dei nostri morti ci sono cari anche se sappiamo che l’anima è immortale e che ci sarà la resurrezione dei corpi, ma quel che resta dei morti rappresenta una storia personale, alla quale siamo legati anche attraverso il culto dei defunti”.

Questa storia personale, che l’alluvione genovese ha violentato, il vescovo, pastore di queste anime smarrite, la spiega bene: “Cari amici, appartenere a qualcuno, avere qualcuno prima e dopo, fa parte della nostra vita, perchè sentirsi di nessuno non è vivere:”

Come dire a quel pubblico di fedeli o di cittadini raccolti nel dolore, che bisogna sopportare una violenza inaudita che strappa oltre il sopportabile, aggiungendo questa ferita così intima a quelle della quotidianeità distrutta: ti hanno allagato e distrutto la casa, ti hanno spazzato via la strada del tuo cammino e ti hanno portato via anche la tua storia personale e famigliare.

Dove andrai a pregare adesso, dove porterai i fiori, dove penserai a quel che è stato , a “chi” era stato?

In quella chiesa grande con l’altar maggiore sovrastato da un baldacchino ultramoderno potrebbe calare anche un senso di disperazione per questa scena di distruzione totale, per le parole gravi del cardinale. Ma quella non è gente che si dispera, che non sa come distillare l’olio della consolazione.

Sono entrati a centinaia in questa chiesa della Signora della Neve per il rito che chiude, Dio lo volesse, i quaranta giorni del “Diluvio” , come ha spiegato “Il Cittadino”, il giornale della Curia arcivescovile genovese, titolando appunto:
“Quaranta giorni, come un diluvio”.

Dall’ 8 ottobre della prima mazzata, al 18 novembre dell’ultimo Allerta.

Accolti dal parroco e da uno stuolo di sacerdoti, giunti anche di corsa in fondo a questa valle, sono entrati segnandosi con la croce o magari con un solo cenno del capo, i cittadini di una parte “viscerale” di quella che una volta si chiamava la Grande Genova.

Sono in prevalenza anziani, molti coniugi invecchiati insieme nella città più vecchia del mondo, una “sana” borghesia operaia, ex lavoratori di quelle grandi fabbriche, che non ci sono più, ma ci sono loro, probabilmente la stampella economica e sociale che regge per ora con i suoi risparmi, con le sue pensioni i colpi della crisi e della potente deindustrializzazione, il crak demografico e quello socio-economico.

Sono fieri, solidi, orgogliosi di un passato forte, quelli che si siedono sui banchi e sulle sedie della chiesa fatta costruire nel Dopoguerra dal cardinale-principe, Giuseppe Siri.

Magari lavoravano alla acciaieria Bruzzo o alla chimica Sanac, grande stabilimento tirato giù negli anni Novanta e dove ora c’è il grande mercato ortofrutticolo, come al posto dell’Ansaldo e dell’Italsider di Campi ora c’è l’Ikea, tempio dei nipotini di questi aristocratici del lavoro, delle tute blù, o Castorama o Unieuro o le Supercoop, le nuove “chiese” domenicali di una rivoluzione anche demografica.

C’ è sicuramente chi ha lavorato sotto i Garrone della dinastia petrolifera, che ora si occupa di energie alternative e che ha appena venduto la Sampdoria, magari facendo bruciare quella fiamma perenne della raffinazione, che illuminava di notte la parte Nord della valle e che, per tenere bravi i bambini, le mamme additavano, narrando che era la “casa del diavolo”.

Un diavolo che dava lavoro come le fabbriche Iri e come tutto il tessuto industriale, dove si fabbricava ogni cosa nel mitico “saper fare”, dell’imprenditoria pimpante del fu “Triangolo Industriale” e dei lavoratori genovesi: decine di migliaia di posti di lavoro, un turno via l’altro e ora sali, sali la valle e ti chiedi, dove tutto questo sia finito e ti incanti magari davanti al grande edificio dove inventano i robot dell’ IIT, “Istituto Italiano della Tecnologia”, un incubatore di piccoli Archimedi Pitagorici, ragazzi venuti da tutto il mondo, 800 scienziati in erba, che sono il futuro e che quel mondo chiuso nella chiesa a ascoltare la preghiera del cardinale Bagnasco neppure si immagina, ma che c’è, eccome.

Allora c’è qualche speranza anche qui nella terra rivoltata “dove si alzan le tombe, si scoprono i morti”, dove la furia da soluzione finale dell’alluvione è arrivata a profanare i sepolcri, con un simbolismo apparentemente definitivo?

“Il buio sarà sconfitto – alza la voce il cardinale Bagnasco – le tenebre non vinceranno mai, la luce trionferà sempre, dobbiamo tessere legami, fare in modo che il mondo invisibile della luce, che c’è sempre, emerga, venga fuori, faccia brillare il sole”

Bagnasco ha anche lui in mente i ragazzi come modello della speranza, del futuro e forse non pensa, alla fine della sua omelia, a quelli cinesi, indiani, australiani, americani che lavorano all’ IIT, ma agli “angeli del fango”, i ragazzi che, elenca il cardinale, “sono apparsi nella loro luce dopo le violenze, a spalare, sgombrare, a essere vicini a chi aveva perso tutto”.

Insomma ci salveranno gli angeli, che esistono davvero e che volano sul fango, anche dal diavolo che profana i cimiteri dopo avere scatenato la furia del disordine, lo squilibrio tra gli elementi della terra e del cielo?

Forse la Messa del cardinale, celebrata proprio a Bolzaneto, consacra definitivamente i giorni del diluvio di Genova e della Liguria, nel segno della speranza e del sacro.

Al profano ci pensano gli amministratori pubblici, che mentre le campane di Nostra Signora della Neve battono le cinque della sera, annunciano il piano del Governo per rimettere a posto quel disordine. Arrivano settecento milioni di euro e 390 sono dedicati al terreno ligure così profanato.

La Regione Liguria diffonde le slides che illustrano, opera per opera, il programma con l’elenco che si mette in cantiere da subito per “rimettere in ordine” il territorio.

Lasci la chiesa, lasci il popolo di Bolzaneto, lasci quell’ombra nera sul cimitero chiuso e capovolto come nelle profezie dell’Apocalisse e guardi l’ultima frana che fa chiudere l’autostrada per molte ore in attesa delle riparazioni. Cerchi la luce, magari dove bruciava quella fiamma di raffinazione. Ora là c’è un albergo e il buio del quarantesimo giorno, del terzo dopo il Diluvio, copre anche il monte sul quale veglia la Madonna della Guardia.