Genova, Ansaldo. Sos di Clavarino: “Patrimonio italiano non sia disperso”

di Franco Manzitti
Pubblicato il 24 Febbraio 2014 - 08:00 OLTRE 6 MESI FA
Un capannone Ansaldo in una foto d'epoca

Un capannone Ansaldo in una foto d’epoca

GENOVA – Il grande vecchio dell’industria che non c’è più lancia il suo grido, o meglio il suo urlo, alla fine della cerimonia per celebrare la storia di un manager di Stato quale lui fu, ma anche l’apoteosi di una potenza industriale italiana e genovese che sembra perduta.

“Salviamo l’industria, salviamo Ansaldo Energia perchè a Genova non ci è rimasto più niente “ dice o, meglio, urla Giovanni Battista Clavarino, 87 anni quasi suonati, l’ultimo presidente della Grande Ansaldo, cioè di quella superazienda delle Partecipazioni Statali che fino alla metà degli Anni Ottanta riuniva una grande parte di quella potenza industriale targata Iri, ma nata privata nell’Ottocento e sulla quale ha proliferato la tradizione prima manufatturiera poi di altro, di tanti settori dell’evoluzione industriale e post industriale in Italia.

Giovanni Battista Clavarino, quel presidente, lancia il suo Sos dal cuore di quella che fu la valle industriale di Genova, la Valpolcevera, dal salone d’onore della Villa che ospita la Fondazione Ansaldo, a un passo da Ansaldo Energia, l’azienda superstite, 3500 dipendenti, uno degli asset più preziosi di Finmeccanica, da anni sul mercato e oggi forse al sicuro da una vendita che la strappi a Genova e all’Italia, ma conmunque l’ultimo simbolo di quella A, che vuol dire Ansaldo e che è ancora un marchio fortissimo nel mondo: come dire A uguale Industria italiana.

Forse Ansaldo Energia, che costruisce centrali in tutto il mondo e onora quella A maiuscola nel terzo millennio, è già salva, grazie alla tessitura strategica di Giuseppe Zampini, il suo amministratore delegato, che è anche presidente di Confindustria Genova e molte altre cose nel cuore di ciò che resta industrialmente parlando, ma l’urlo di Clavarino vale lo stesso perchè simboleggia il clima che nella città ex Superba aleggia da tempo.

L’occasione di celebrare Ansaldo e il suo ultimo presidente “totale” è un suo libro, dal titolo provocatorio e anche molto “commerciale” “Gio Batta chi?” che si presenta in questo ombelico genovese, lungo una strada che si chiama Corso Perrone, nome della famiglia che ereditò e lanciò Ansaldo, nel buco di quella valle che era fatta di aziende manifatturiere e poi di raffinerie e che ora è, Ansaldo Energia a parte, il territorio che la Grande Distribuzione si sta mangiando, palmo a palmo. Ikea sta per raddoppiare il suo insediamento, Fedra, Aquilone, Coop e cento altre strutture distributive, grandi e piccole, salgono sulle due sponde intorno a questo torrente secco, fino alle propaggini del Passo dei Giovi.

E’ morta pure la Centrale del Latte, che non era un insediamento industriale, ma che con l’assetto territoriale si integrava da decenni, offrendo a generazioni di scolaresche in visita il panorama del vero ombelico genovese: la solidità anche un po’ aggressiva, anche un po’ cupa, dell’anima industriale. Fabbriche una via l’altra, capannoni e fiumi di tute blu che uscivano da Campi, area Ansaldo per definizione, e dagli altri stabilimenti, forti rimbombi di macchine utensili, domate da un esercito di operai, che trapassavano i muri di vere roccaforti dell’era industriale fordista, autocarri (allora si chiamavano così) in fila indiana, verso l’entroterra o verso il grande porto che apriva le sue fauci pochi chilometri più in giù, da dove Clavarino lancia il suo grido.

“Nella mia Ansaldo c’erano 22 mila operai – dice il presidente nel suo intervento che non è venato di nostalgia, ma solo animato da una denuncia secca, non rabbiosa ma aspramente orgogliosa – prima che incominciasse lo spezzettamento. E che ne è ora di tutte quelle aziende frazionate, tra cessioni salubri come quella del settore biomedicale dell’Esaote alle altre, partendo da Ansaldo Sistemi industriali, la mia creatura creata dal nulla che arrivò a 2500 dipendenti?”

Difficile non scuotersi leggendo quel libro di Giobatta Clavarino, nome di battesimo che coincide con il santo protettore di Genova guarda caso, e riassume una vita con la A maiuscola e ricorda i pezzi di quell’azienda uno a uno e la storia di questo signore ancora bello dritto con la voce che non trema, la sua testa di capelli bianchi e il suo curriculum di ambasciatore di quello che oggi si chiamerebbe made in Italy e allora era Italia, Industria e bastava quello.

Ha incontrato presidenti, imperatori, re, regine scià, emiri, dittatori sanguinari e dittatori all’acqua di rose, per convincerli a costruire con Ansaldo e per Ansaldo e ora non si capacita che quella forza industriale con le radici in questa terra della Valpolcevera sia esaurita.

Così questa presentazione del suo libro, organizzata con il solito spirito strategico dalla Fondazione Ansaldo, diretta da Luigi Giraldi, diventa non l’Amarcord, ma la bandiera di una tradizione industriale da non disperdere del tutto come una fiammella accesa nell’orgoglio di Clavarino e della sua squadra di ingegneri, ancora schierati uno per uno, come se dovessero domani andare a prendere le redini di un nuovo stabilimento e non contribuire a scrivere la storia di un grande dirigente insieme a lui.

Non è un caso che a raccontare quel libro e il suo protagonista sia stato chiamato anche Federico Di Roberto, un genovese che ha fatto una grande carriera nella diplomazia italiana, ambasciatore a Madrid, a Mosca, a Parigi, a Bruxelles, ruolo centrale alla Farnesina. Di Roberto si dichiara ansaldino perchè suo padre era un ingegnere Ansaldo, che “lanciò” per primo Clavarino, assunto da un mese, affidandogli, appunto un nuovo stabilimento.

E Di Roberto è ansaldino due volte, perchè da ambasciatore accompagnava l’allora leader Ansaldo nelle trattative con i governi esteri dove quella A miuscola conquistava il mercato. L’ambasciatore sa descrivere bene quella che definisce la “avvincente plasticità dell’Ansaldo”, un’azienda che con il suo marchio navigava per ogni mare, restando però così ancorata al suo territorio di origine, Genova, il suo porto, le sue fabbriche, i suoi ingegneri, i suoi tecnici.

“Allarme – dice ancora Clavarino nella sua perorazione – perché se qui chiudono tutte le industrie, muore anche l’indotto che è cresciuto intorno e che è fatto di competenze uniche al mondo”.

Chi può portare un alito di speranza che non sia solo il senso di appartenenza all’Ansaldo, celebrata in un pomeriggio di inverno? Forse proprio Giuseppe Zampini, che ansaldino lo è ora a tutti gli effetti e che racconta come Ansaldo Energia provenga oggi da una sofferenza e che si può salvare se il giudizio di chi decide sul suo destino tiene conto non solo del valore finanziario di questa azienda, ma anche della competenza industriale che continua a esprimere. Messaggio molto chiaro ai vertici di Finmeccanica.

Bisogna, insomma, costruire un ragionamento commerciale di quelli che Clavarino era un maestro a fare nel suo girovagare per il mondo.

“D’altra parte non è un re del marketing”, osserva Zampini, colui che intola il suo libro “Gio Batta chi?”, sfruttando quasi la recente battuta renzianaa costata le dimissioni al sottosegretario Pd, Stefano Fassina?

Chissà se l’urlo di difesa industriale, che si leva dagli ex Ansaldo, troverà la riposta giusta? Certo, chi esce dalla nobile Villa della Fondazione, dove la memoria industriale è così ben custodita e archiviata, può essere preso dallo sconforto, se si ferma al panorama circostante.

L’Ilva dell’acciaiere Riva “giace” nella vicina Cornigliano con i suoi quasi duemila dipendenti tra cassa integrazione e contratto di solidarietà, mentre “el paron” ha messo sul mercato 150 mila metri quadrati dello stabilimento, una volta considerato l’ Eldorado di Genova.

Come dire: abbiamo spento l’altoforno a caldo, c’è poco lavoro per quello a freddo, non ho più bisogno di tutte queste aree per il mio business.

Quelle aree, ricavate tra gli anni trenta e il Dopoguerra per costruire il primo “ciclo integrale dell’acciaio” in Italia, sono state rubate al mare con un’operazione kolossal che ha stravolto la città, ma dato da lavorare per ottanta anni a generazioni e generazioni di famiglie: ci lavoravano fino a 13 mila operai dentro al “mostro” dell’acciaio.

Insieme con i 22 mila dell’Ansaldo di Clavarino e insieme con le migliaia della Fincantieri che sfornò i grandi transatlantici dal Rex, all’Andrea Doria, alla Michelangelo, e insieme al resto siamo a quasi sessantamila operai. Senza contare il grande porto e il suo settore industriuale delle Riparazioni Navali.

Clavarino non si arrende e nella foga del suo grido promette che se nessuno si muove lui ha ancora la forza per organizzare una grande mobilitazione, una marcia magari come quella celebre della Fiat di Arisio&C, che difenda la tradizione industriale e il suo futuro.