Alla fine lo scoglio che ha affondato il galeone del marchese-sindaco di Genova, Marco Doria, è stato una montagna di spazzatura, “rumenta” dicono da queste parti, usando il dialetto che è più corrosivo. A cinque anni esatti dal suo trionfo nelle Primarie del centro sinistra, che bocciavano le zarine del Pd, Marta Vincenzi e Roberta Pinotti, il sindaco annuncia che non si dimette subito, ma che non si ricandiderà più alle prossime, vicinissime, elezioni comunali genovesi, che erano un dettaglio politico italiano e ora diventano un test importantissimo e non solo locale.
Non se ne va subito il “marchese rosso” per non lasciare la navicella genovese in mano a un commissario prefettizio nei prossimi due mesi, fino alla data elettorale, ma considera chiuso il suo ciclo e lascia il cassero dal quale aveva, con il suo stile da ufo della politica, diretto l’ amministrazione comunale della sesta città italiana.
Quella montagna di spazzatura sulla quale si è coricato il suo gonfalone di ammiraglio, erede di grandi ammiragli della storia genovese, a incominciare dal mitico Andrea Doria, gli si è parata davanti nel mare in tempesta, quando il consiglio comunale ha bocciato la delibera con la quale “privatizzava” la Amiu, appunto la azienda partecipata comunale della “rumenta”, facendola acquistare dal colosso dell’acqua e dell’energia, Iren. Gli ha votato contro la maggioranza del consiglio, ivi compresi due componenti della sua lista, che si chiama proprio lista Doria.
Gli hanno votato contro diversi “compagni” del Pd, oltre ovviamente al centrodestra gongolante (fantastica una destra che dice no in Comune a una privatizzazione), si sono astenuti in molti, anche ex compagni di strada del marchese. E siccome l’Amiu non privatizzata rischia di fallire in un baleno e di mettere per strada centinaia di dipendenti, ecco che il galeone è colato a picco e ha lasciato il sindaco-timoniere a galleggiare sul mare in tempesta di una gestione comunale sempre più perigliosa per cinque anni interi, con la sua maggioranza di fu centrosinistra, che si sfarinava e il Pd che un po’ lo sosteneva, un po’ lo lasciava a bagno maria e poi gli lanciava un salvagente come nell’inverno del 2013, quando lo sciopero di un’altra partecipata, l’Amt, azienda dei Trasporti, paralizzò la città per cinque giorni interi con i suoi scioperi e l’allora presidente della Regione Claudio Burlando, pd doc, lo salvò vendendo la bufala di 316 nuovi autobus pagati dalle casse regionali.
“Non mi dimetto perchè non posso lasciare la città in mano a un commissario per due mesi e l’Amiu in mezzo al fallimento, cercherò un accordo in consiglio per salvare l’azienda, ma annuncio che non mi ricandido più”, ha scritto in un comunicato, da sotto il gonfalone sventolante di san Giorgio, il sindaco uscente Doria, dopo una giunta comunale lunga ore.
La città aspettava da un giorno le sue decisioni e si chiedeva se quel sindaco con il suo aplomb da aristocratico, ma di sinistra, “comunista” per sempre, “arancione” di moderno colore politico, come Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, De Magistris a Napoli, navigante da anni oramai nel dissenso peloso della sua giunta, con i pezzi della maggioranza staccati uno per uno, con i democratici rosi dal dubbio che si ricandidasse o no, resisteva ancora, o no, sul cassero del suo galeone.
C’era già, dunque, un caso Doria da mesi e mesi, l’incertezza del suo destino così collegato a quello della sua maggioranza sempre più variabile, la corsa alla ricerca di una candidatura unica della sinistra per riconquistare Palazzo Tursi ancora una volta, come avviene da decenni e decenni.
Ora c’è un caso Genova che Roma dovrebbe incominciare a valutare attentamente. Se i grillini o la Destra conquisteranno la Superba tra tre mesi, questa potrebbe essere la sconfitta più pesante per il Pd nazionale: Genova e Palermo sono le città chiave della tornata elettorale, che varrà molto di più nell’ipotesi che le elezioni politiche slittino verso il 2018 o, comunque, non coincidano con le comunali.
Di questo caso Genova tutti si sono disinteressati fino a oggi, al di fuori del Golfo dove è affondato il galeone Doria e oltre le mura ostiche a qualsiasi introduzione “straniera”. Il commissario regionale Pd, che Renzi spedì in Liguria, David Ermini, un tosco fiorentimo, dopo la rovinosa sconfitta nelle regionali del 2015, vinte a grande sorpresa da Giovanni Toti per il centro destra, non ne può più dei piddini liguri e genovesi, litigiosi, divisivi, capaci solo di scannarsi tra loro mentre quel galeone stava nella tempesta.
I due importanti ministri genovesi e liguri, Roberta Pinotti della Difesa e Andrea Orlando di Grazia e Giustizia, se ne sono sempre stati lontani dalle beghe cittadine genovesi. Mica sono come Paolo Emilio Taviani, il grande leader genovese del Dopoguerra, fondatore della Dc e ministro per decenni, che a Genova controllava ogni foglia, determinava la nomina di ogni sindaco, di ogni presidente di banca e di Regione e ispezionava tutto con i suoi fedelissimi del partito e con i prefetti che per uno come lui, per otto anni titolare del dicastero degli Interni, erano come di famiglia.
Pinotti ha da controllare gli scenari di guerra e i capovolgimenti mondiali. Orlando oggi è addirittura considerato un possibile candidato premier di un eventuale post renzismo e poi ha comunque le sue riforme della Giustizia cui pensare.
E così davanti al caso Genova e al sindaco che esce da una prospettiva futura di battaglia elettorale il Pd si è trovato in braghe di tela, per usare un’altra espressione autoctona. Non ci hanno pensato veramente a come sarebbe stato il futuro, su quale candidato puntare per difendere la grande roccaforte rossa, che domina il grande arcobaleno ligure. C’era il problema Doria, che non si sapeva come risolvere……
Qualcuno se ne è andato, come il leader forse più importante storicamente, che abitava a Genova, Sergio Cofferati, oggi eurodeputato, sconfitto in molto discusse Primarie regionali, uscito dal partito o come Luca Pastorino deputato, ex sindaco di Bogliasco, che corse le stesse regionali, portando via voti alla cndiata sconfitta da Toti, Raffaella Paita.
Qualcuno è evaporato, come l’ ex presidente regionale Claudio Burlando, primo sconfitto di quella battaglia in quanto mentore della suddetta Raffaella, che vive sospeso tra una sorta di esilio a Torriglia, dolce campagna dell’entroterra, dove si cercano funghi e si gioca a tresette e qualche rigurgito di possibili revanche in politica, dopo una lunga vita nella quale è stato ogni cosa nel Pci-Pds, Ds e Pd, assessore comunale, sindaco di Genova, deputato, ministro dei Trasporti, presidente di Regione, segretario di partito….
Qualcuno si è provocatoriamente autocandidato a fare la corsa per Tursi, come il filosofo pop Simone Regazzoni, docente di Estetica a Pavia, che ha sfidato tutti o nessuno alla Pirandello nelle eventuali Primarie, che cavalca dal primo momento la campagna anti Doria, di questo gli dovranno almeno dare atto.
Qualcuno ha spaccato il fronte, come i “duecento”, una lunga lista di democrat zeneixi anti Renzi, che hanno fatto un blocco e fondato una associazione dal nome che sembra di una favola “Il pane e le rose” e, invece, è di una dissidenza, dove i capi sono ex bigs del partito, come l’ex potente assessore regionale alla Sanità, Claudio Montaldo e come Ubaldo Benvenuti, ex consigliere regionale, uno che sussurra all’orecchio di Massimo D’Alema, celebre per avere licenziato un altro sindaco esterno al partitone rosso, Adriano Sansa, il famoso giudice governante la città tra il 1993 e il 1997 e liquidato con la frase “storica”: noi siamo in grado di far eleggere sindaco, il primo camionista che passa.
Altri tempi e come sono passati velocemente, ora che il galeone di Doria finisce nel gorgo e che il Pd, discendete da quel Pci onnipotente, non sa dove sbattere la testa per scegliere un candidato sindaco, probabilmente destinato a perdere sia contro un candidato grillino, fosse quel Luca Pirondini, di cui Blitz ha recentemente scritto, o fosse il Carneade che il centro-destra dello scatenato Giovanni Toti tirerà fuori dal cilindro “ nell’ultima settimana di marzo”, come ha un po’ spocchiosamente preannunciato il governatore ligure, ex speaker di Berlusconi.
Mentre il galeone di Doria si inabissa e il Pd nazionale è in tutt’altre faccende affaccendato (ma si dovrà muovere) l’unico nome rimasto in lizza tra le autocandidature e le profferte ai vari assessori di Doria, oramai tutti inabissatisi, insieme a lui, il vicesindaco Stefano Bernini, l’assessore più “forte” sul territorio, Gianni Crivello, l’assessora al rimontante turismo genovese, unico atout della gestione doriana, Carla Sibilla, è quello di Luca Borzani, un quasi sessantenne di lungo corso, neppure iscritto più al Pd.
Borzani è uno storico di professione, già assessore in una delle migliori giunte che hanno retto Genova, quella di Beppe Pericu, sindaco dal 1997 al 2007, poi presidente della Fondazione Cultura, la potente macchina che governa i Musei-chiave di Genova, palazzo Bianco e palazzo Rosso e Palazzo Ducale, il vero Beaubourg genovese, una calamita che attira milioni di visitatori con mostre e dibattiti.
Ma Borzani dovrà passare in mezzo alle forche caudine delle Primarie e, soprattutto, accetterà una cavalcata così difficile? Lui uomo di sinistra, soprattutto di una sinistra onnicomprensiva, senza se e senza ma, con tutti dentro e con un Doria per quanto affondato, almeno rispettato? Fin’ora il possibile candidato non ha mai accettato di rispondere e ha sempre affermato: “la mia candidatura non esiste”. Ma ora la situazione è cambiata, perchè quello che era in qualche modo un ostacolo, la presenza di Marco Doria, suo amico e anche collega “storico”, non c’è più.
Il tramonto “arancione”, che manda riflessi anche un po’ sinistri sullo scenario del grande golfo, illumina una prospettiva di grande incertezza. A parte le questioni di partito, che appassionano molto poco l’opinione pubblica, la città appare piantata non solo su quella montagna di spazzatura che poteva essere scalata dalla delibera comunale con una politica più accorta e più moderna nel consiglio comunale e non diventare il motivo di un voto che Doria ha definito “irresponsabile” e Massimo Cacciari, il filosofo, ex sindaco di Venezia, “il risultato di una “sinistra arcaica”, che non capisce come si salvano le aziende comunali partecipate.”
Ventiquattro ore prima che il galeone naufragasse era affondato anche il Blue Print, grande progetto di Renzo Piano, sul quale Doria aveva puntato molto. Era il disegno per collegare la zona del porto antico genovese con l’area della Fiera del Mare, con un sistema di canali di acqua e nuove sistemazioni dei vecchi padiglioni storici, dove si svolgeva il leggendario Salone Nautico di Genova.
Ebbene, la commissione di architetti chiamati a decidere quale progetto dei 77 presentati per tradurre il disegno di Renzo Piano in uno schema già operativo, ha stabilito che nessuno aveva raggiunto il punteggio sufficiente per conquistarsi il diritto a essere realizzato. Nessun vincitore per un’operazione da 250 milioni di euro, dei quali, per la verità, solo poco più di 35 sono statali e già stanziati e gli altri 200 sarebbero da ricercare tra molto ipotetici investitori privati.
Quindi altro che Blu Print, Disegno blù: anche questa chance è per ora affondata nel golfo, quello sì blù ,di Genova.
Di Doria resteranno i soldi investiti nell’operazione anti alluvioni, che significa opere di copertura e scolmatura del fiume Bisagno e del rio Fereggiano, i killer tradizionali nelle ritmiche tragedie genovesi di ogni autunno, il recupero di qualche zona degradata della città, la difesa dei diritti, uno stile trasparente, la spinta al turismo, la battaglia mezza persa, ma non si sa ancora, per difendere il teatro Carlo Felice, sempre sull’orlo del crack, l’incapacità di dialogare con il sindacato e neppure un sorriso che si ricordi.