Genova. 2700 mm d’acqua in due mesi, 400 frane, 7 allerta, diluvio universale

di Franco Manzitti
Pubblicato il 3 Dicembre 2014 - 07:10 OLTRE 6 MESI FA
Genova, diluvio universale: 2700 mm d'acqua in due mesi, 400 frane, 7 allerta

Genova, diluvio universale: 2700 mm d’acqua in due mesi, 400 frane, 7 allerta

GENOVA – Non smette più da due mesi, piove sempre, si passa in mezzo a tre alluvioni, sette stati d’allerta 1 e 2, scuole chiuse per otto giorni, il Bisagno e il Polcevera straripati l’8 ottobre e il 15 novembre e con loro una ventina di rii e bei e torrenti genovesi dai nomi impossibili.

Si passa attraverso quattrocento frane nelle strade dell’ entroterra e oggi anche nel cuore della città, dove si sfarinano muraglioni e ripe, come nelle centralissime vie Montaldo e via Trento. Sono piovuti in questi due mesi maledetti 2700 millimetri di pioggia, con le bombe e con la pioggia “normale”, più che nel fatidico 1872, record dei record.
La Superba è una pozza d’acqua intrisa, una spugna che le cartine dell’Arpal, l’agenzia regionale, disegnano con il colore blu, come la paura che se continua allora è proprio il diluvio universale.

Certe strade della città sono ancora ferite a morte, con i segni del fango a un metro e novanta e l’attività non ancora ripresa e forse non riprenderà mai. I danni sono incalcolabili e le cifre che le istituzioni mandano al Governo e ai suoi responsabili di oltre trecento milioni di euro fanno ridere perché il buco è molto più grande e più incalcolabile e si allarga ancora dopo quello dei 2500 esercizi commerciali atterrati dalla prima alluvione di questa serie 2014, quella dell’8 ottobre. E stiamo parlando solo di Genova capitale, senza metterci tutto il resto della Liguria che piange, conta, cerca di rialzarsi e frana e si sbriciola e si ripulisce, come a Chiavari, a Albenga, a Savona, a Imperia e nell’entroterra color fango permanente a Savignone, Montoggio, Busalla, Gavi, Arquata, comuni sul confine con il Piemonte.

E quel buco si allarga perché a ogni allerta dichiarato i battiti lenti della città si fermano nell’attesa del peggio e il traffico si dirada e i negozi sono vuoti e la città sembra come in stato di guerra, sporca di fango, muta, silenziosa, piena di una rabbia muta che mescola le maledizione al cielo nero e carico alle altre disgrazie di questo anno malefico: la crisi, il lavoro che sparisce come nei gorghi del fango, le fabbriche che chiudono, le crisi aziendali che proiettano cortei di protesta, quando il cielo e l’asciutto delle strade lo permettono, finalmente.

Maledizione, se piove così non si può neppure manifestare. E allora oggi, 2 dicembre, approfittando di uno spiraglio dopo cinque giorni di acqua dal cielo, gli operai dell’Amt, l’azienda dei trasporti sull’orlo del fallimento , 2700 dipendenti con la testa sotto le ruote di bus, ascensori, funicolari, bloccano il cuore di Genova, la Piazza Corvetto della statua a Vittorio Emanuele II. A due passi, in consiglio comunale, il sindaco e i consiglieri discutono a porte chiuse il caso Amt, dopo la disdetta del contratto integrativo. La strada, via Garibaldi, nella storia la Via Aurea per la magnificenza dei palazzi che ne fanno un patrimonio dell’Umanità, è blindata e militarizzata per la paura di un assalto al palazzo Tursi, dove da mesi, forse anni, la crisi a perpendicolo dell’azienda comunale scatena un match sempre più violento tra il sindaco Marco Doria e i dipendenti, dove ogni appartenenza politica del primo cittadino, indipendente di Sel eletto tre anni e mezzo fa contro i candidati del Pd, si è come dissolta nello scontro.

I manifestanti del 2 dicembre nella città alluvionata e oramai flagellata dalle sue piaghe come quelle d’Egitto, esibiscono manifesti con il primo cittadino irriso per la sua “erremoscia”. Si sono accorti che il Doria è un discendente della storica famiglia, che ha dato alla Superba ammiragli come il mitico Andrea, dogi, consoli e potenti di ogni ordine e ora contestano anche il passato a questo professore di Storia dell’Economia, di 55 anni, che si trova con il suo galeone nella tempesta più violenta che _ guerre a parte _ un sindaco, un podestà, un doge, un generale_ abbia mai affrontato in tempo di pace.
I bollettini annunciano altra pioggia, altra acqua fino a quando non si sa, mentre il corteo Amt fa il girotondo e blocca ogni accesso al centro e il traffico si ferma e la gente in coda china il capo sul volante, rassegnata, quasi complice dei manifestanti. Ieri era Allerta oggi è sciopero….

Un anno fa erano state le cinque giornate di Genova con il primo blocco dei lavoratori Amt alla città e lo sciopero che aveva costretto i cittadini o al traffico impossibile o a spostarsi a piedi in una città che ha strade tanto lunghe quanto Milano, trentadue chilometri da un capo all’altro della costa da Nervi a Voltri e in mezzo le due valli Bisagno e Polcevera, dove in questo autunno si sono scatenati i torrenti esondando, straripando con i loro sconosciuti affluenti in una specie di sabba, che ha avuto il suo culmine nel disastro biblico del cimitero della Biacca a Bolzaneto, dove il rio Barrio aveva travolto tombe e ossari trascinandoli nel fango e nell’acqua.

Il termometro è fisso da mesi su una temperatura che oscilla tra i tredici e i diciassette gradi, di notte e di giorno, la temperatura del mar Ligure non è mai scesa sotto i 18 gradi, cinque sopra le temperatore di dicembre 2013. Un brodo soffocante di aria e di acqua salata, macaja, bonaccia e poi arrivano i temporali e le onde altre tre quaattro metri, color fango che stanno cancellando la costa ligure e nessuno ci pensa. Città tiristiche come Santa Margherita e Alassio non hanno più spiaggia, di sassi o di sabbia che fosse, un danno incalcolabile che oggi non si mette a bilancio perchè arriva l’inverno. Ma dopo, chi restituirà la spiaggia e quanto costerà?

Eccola qua nel caldo dell’aria e del mare la miccia che continua a innescare le bombe d’acqua e questo modo di piovere che sta mettendo in ginocchio quasi tutta l’Italia, ma che qua si catalizza in una orografia malefica, la striscia di terra, le colline brulle e cementificate, i rii e i torrenti coperti, murati, fatti sparire nella cementificazione selvaggia degli anni Sessanta e Settanta e anche in quella più recente.

Spiegazioni che di fronte al clima scatenato non reggono neppure più, se i coltivatori del basilico, l’oro verde delle colline di Prà, diventati ricchi con questa pianta che serve al pesto, piangono sulle frane e e sulla distruzione delle loro serre, spiegando che non è l’abbandono della terra, la mancata irrigimentazione del sistema di scorrimento delle acque che causa lo scatafascio a valle, le esondazioni, gli stripamenti.

Non c’è territorio più protetto, coltivato e curato di questi fazzoletti di serre e campi di basilico, che stanno sulle alture del Ponente. Eppure si farinano anche loro, come le colline rosicchiate dal cemento senza regole che ha fatto costruire case e perfino quartieri interi in salita, che svettano in alto a fianco dell’autostrada o delle strade che tagliano l’immediato entroterra di questa città, forse anche colpevole di accusrasi troppo.

Giù a valle, in fondo, dove i rii e i torrenti vanno a sfogarsi o nel maledetto Bisagno dello straripamento mortale nell’8 ottobre scorso, ma era già successo nel 1953 e nel 1970 e nel 1992, o nel Polcevera delle bare galleggianti il 15 novembre, si fanno i processi alle opere incompiute degli scolmatori e dei deviatori per le quali gli amministratori della regione annunciano di concerto con il governo, i suoi sottosegretari, i suoi addetti alla tutela ambientali cantieri subito e 870 milioni di stanziamenti per “salvare” subito un territorio che Renzi non è venuto neppure a confortare. “Ci andrò a Genova _ ha ripetuto ancora recentemente il premier _ quando incomincerà qualche lavoro importante, non vengo a fare passerelle…”.

E molti hanno letto questa assenza con una distanza dai governanti regionali, il presidente Claudio Burlando del Pd, figura storica della sinistra ligure e la sua delfina Raffaella Paita, assessora anche alla Protezione Civile, coinvolti non solo nella battaglia della salvaguardia, ma anche nelle Primarie del centro sinistra che dovrebbero scegliere, l’11 gennaio, il candidato a governare la Liguria fino al 2019.

Primarie di fuoco, sospese tra le mille incertezze della politica italiana, tra election day, faide interne al Pd e, appunto disastri ambientali. Primarie annegate nelle alluvioni, che saranno una disfida tra la suddetta Raffaella Paita, renziana e spezzina e Sergio Cofferati, proprio lui, il cinese, l’ex leader Cgil, sindaco di Bologna e europarlamentare, sceso in campo dopo essere diventato genovese di fatto, di residenza, di famiglia e forse anche di coscienza politica nel segno della discontinuità dal “regime” di Burlando, regnante da dieci anni da presidente, ma influente su questo territorio da trenta anni, nei ruoloi diversi che la sua carriera haa sciorinato nella Prima, nella Seconda e nella terza Repubblica.

Già Cofferati, cuperliano, bersaniano, storico difensore dell’articolo 18, che salta su questo ring _ come Blitz ha raccontato_ sventolando le carte che dimostrano come la giunta regionale uscente, quella di Burlando e Paita, avesse appena dedicato alla difesa del territorio solo il 3,8 per cento delle sue risorse di bilancio con decisione dell’aprile scorso, poco prima che arrivasse questo autunno da record assoluto di pioggia, dissesto e frane.

Piove ancora, non smette mai e i bollettini storici misurano a Sestri Ponente, dove c’è l’aeroporto, il record di 2037 millimetri di pioggia tra ottobre e novembre, solo quaalche goccia di meno dei 2107 caduti in città.

Ma quanti ne sono caduti più a monte, dove le bombe hanno innescato gli stripamenti, gonfiando ogni beo e rio? La cronaca martellante delle alluvioni di questo autunno è stata tanto ricca di disastri, danni, crolli e frane che sono perfino sfuggite al racconto le storie drammatiche di chi si è salvato per un pelo e che oggi rievoca come l’ha scampata nelle notti degli straripamenti.

Come quei due professori dell’Università, marito e moglie, che sono stati ghermiti dall’onda di fango, acqua, fogna e detriti del Bisagno, quasi alla Foce, davanti alla Questura e lui ha salvato lei prendendola per il collo dell’ impermeabile mentre stava affogando e ha nuotato, proprio nuotato verso quella strada in leggera salita che gli ha permesso di toccare e quindi di scampare alla furia ringhiosa.

O come quell’illustre console di Turchia che l’onda l’ha presa in macchina, mentre stava imboccando via XX Settembre, la spina dorsale dell centro città, e si è salvato mentre l’auto veniva sbattuta sui palazzi di una strada laterale e affondava in due metri e mezzo di fango e lui è uscito da una portiera miracolosamente apertasi e si è agganciato a una inferriata di un palazzo e poi ha nuotato senza scarpe, con una parte dei vestiti strappati di dosso verso la salvezza, che era anche qui la strada in salita, una luce nel buio della notte di disastro sotto la quale l’ha ripescato la Protezione Civile.

Un miracolo. Come quella commerciante che era corsa a cercare di salvare il salvabile e il Bisagno in risalita l’ha ghermita mentre controllava la sua saracinesca e da quella posizione paradossale l’ha salvata un gommone dei Vigili del Fuoco che “navigava” nel cuore della città allagata, come fosse sul Rio delle Amazzoni.
Quanti miracoli nella città ferita, infangata, sfuggiti al racconto come nelle guerre, come nelle grandi battaglie, che finiscono con il cancellare i singoli episodi nel disastro collettivo, nella conta dei danni globali.

La città vive trattenendo il fiato durante gli stati di allerta, con gli occhi puntati sulle tv locali, come “Primo Canale” o “Tele Nord”, che da mesi vanno in diretta sulla sciagura e non mollano mai e quello è l’unico sistema per sapere cosa sta succedendo, altro che servizio pubblico pagato con il canone!

Telecamere che frugano negli alvei esondabili, nelle frane, nel buio marrone del fango, nei disastri in corso, nelle stanze della Protezione Civile, in quelle degli esperti, che attraverso questi mezzi privati messi generosamente a disposizione, fanno sapere quel che spesso può salvare la vita.
Voci di sindaci disperati, ma sempre fermi, risoluti, responsabili, appelli di assessori che raccomandano di non uscire, annunci di previsori che mostrano cartine gialle, rosse con il carico della pioggia che sta per abbattersi fino a quella blù, che mostra la Liguria nella sua pozza. Ragazzi e ragazze-report con telecamerina che si tuffano nella alluvione per documentare, raccontare e anche salvare.

“Primo Canale” nella notte dell’8 ottobre ha avuto quasi seicentomila contatti, vuol dire che un ligure su due guardava la sua trasmissione. Continuerà a piovere, fino a quando? Il termometro resta fisso sui quindici gradi, anche quando il buio di un autunno che non riesce a convertirsi in un inverno, che non porta il gelo invocato, come non era immaginabile, non porta la neve che almeno è ferma e fa perfino allegria.

La neve, il sole, un miraggio a Genova, dove regna quel marrone sporco di fango, di fogna che sale, che monta ringhiando cupo e arriva a quel tetto incredibile di 2700 millimetri e non è ancora finita.