Genova e Liguria: asfissia da frane, risorge il Morandi ma non basta

di Franco Manzitti
Pubblicato il 3 Dicembre 2019 - 09:15 OLTRE 6 MESI FA
Genova e Liguria dopo il crollo del viadotto A26: asfissia da frane, risorge il Morandi ma non basta

Il viadotto crollato sulla A26 che aveva isolato Genova e la Liguria

ROMA – In coda per chilometri e chilometri di Tir, pullman, auto, sopratutto Tir, carichi di containers, in su verso Alessandria, e, prima, Ovada, Predosa, l’apertura verso la Padania, la pianura prima dell’Appennino carico di nuvole, di strettoie, di gallerie e di ponti, maledetti ponti della paura e dell’incertezza.

In coda sulla A26, in discesa verso il miraggio di Voltri-Prà, di Genova, del suo porto ora quasi irraggiungibile, in coda verso quello spiraglio della corsia alternata prima di Masone, sul viadotto Fado, semicieco come il Pecetti, il suo viadotto parallelo, sulla altra corsia, chiusi e riaperti con lo spiraglio come un occhio socchiuso. Fermati dai giudici e poi dalla società Autostrade perchè difettosi, non adeguatamente mantenuti, pericolosi, fragili, a rischio di qualche maledizione.

In coda su questa A26 a tre corsie, in salita e discesa, che ora è diventata una trappola, una acrobazia per salire da Genova o per arrivarci dalle pianure, dai territori nordisti, le grandi vie verso l’Italia del Nord Ovest, verso Malpensa, bypassando Milano, verso Gravellona Toce, poi la Svizzera: un grande spazio di comunicazione che si strangola laggiù, tra il Fado e il Pecetti, folgorati dai rapporti che la Procura di Genova ha sbattuto sul muso di Autostrade, obbligando a chiudere, controllare, misurare lo stato dell’asfalto, delle campate, dei cassoni che stanno sotto l’asfalto.

Da quasi una settimana il calvario incomincia, e sale e scende e non sai più se è peggio la salita, come vorrebbero le Sacre Scritture o la discesa. Se è peggio calarsi verso Genova irraggiungibile, le sue banchine “separate” da un viaggio impossibile o se è peggio lasciarsela alle spalle con il Tir carico e cercare lo spiraglio per superarlo e spaziare nei larghi spazi dopo Masone, dopo la strettoia assassina che forma i chilometri di coda.

Questa è la A 26 e non sai per quanto sarà così, giorni, settimane, mesi, non osi pensare di più e ti chiedi qual è il prezzo che la Liguria, Genova, i porti di Prà-Voltri e di Genova-Sampierdarena pagheranno a quello stop.

La sopravvivenza delle banchine genovesi per un percorso di avvicinamento che diventa un incubo, ore e ore di viaggio, quando i porti super aperti del Nord Europa li raggiungi come in carrozza rispetto a questo viaggio con la frizione che brucia, in mezzo al serpente che scende ( o sale) e l’occhio ti brucia a seguire la coda che hai davanti e che sale ( o scende) come una biscia di lamiere e magari piove anche e magari la nebbia del Turchino ti avvolge e perdi i contorni del mondo intorno, resta solo il faro dello stop del Tir che ti precede e lo specchietto nel quale vedi la coda dietro, infinita, lenta. Quanto resiste questa sopravvivenza di porti che facevano un traffico di oltre tre milioni di container?

E questa, invece, è la A 6, cinquanta chilometri più a Occidente, verso la Francia, che sale da Savona lungo la valle Bormida, verso il Basso Piemonte e Altare, Carcare, Mondovi, Cuneo, poi Asti e infine Torino. Questa è la autostrada A 6, interrotta a singhiozzo dalla frana di quella collina Madonna dei Monti, che franando si è divorata quaranta metri del viadotto, l’incubo nuovo, a sedici mesi dal Morandi, miracolosamente senza vittime, l’asfalto caduto sulla frana di sotto, i piloni sfalciati da 30 mila metri cubi di terriccio scesi dalla montagna. Che si muovono ancora se piove troppo.

E così anche qui fermi, inchiodati, se i sensori si accendono e anche la via altenativa sull’altra corsia si chiude o in coda se la frana ti lascia passare. E che coda, ancora più disperata perchè questo è l’imbuto di discesa e di salita non solo verso Savona e Torino, ma versol’intera Riviera di Ponente, il passaggio a Nord Ovest per milioni e milioni di turisti nelle stagioni buone e oggi di milioni di container per il porto di Vado, dove il 10 dicembre inaugurano una grande piattaforma della Maersk, mega compagnia mondiale di trasporto marittimo, che ci ha investito miliardi e che ora gli strozzano la princopale via di accesso, sia questa A 6 che quella A 26 da Prà Voltri.

In coda anche qua, dove il viadotto è stato assassinato dalla natura incattivita dai diluvi quasi universali di un mese di pioggia e non dall’incuria degli uomini, come il Fado e il Pecetti e il Morandi e tutti gli altri che i giudici stanno mettendo in fila con il rischio della chiusura, perchè gravemente “ammalorati”.

E questa geografia dell’ammaloramento è come una cartina che si distende dalla Liguria disperata a Ponente, a Levante e a Nord in una raggiera di paura e di fragilità che mette in discussione tutto il sistema infrastrutturale.

Ora hanno piazzato nel mirino anche la A12, il tratto che va da Genova verso Levante e che crocifigge già il viadotto Sori, un grande ponte, che collega il casello di Nervi con quello di Recco, passaggio chiave verso il Levante. Se anche questo viadotto dovesse essere fermato, allora Genova perderebbe il collegamento principale verso la Riviera di Levante, Spezia, la Toscana….

L’effetto isolamento incomincerebbe a diventare totalizzante: resterebbero solo le strade provinciali, la storica Aurelia, che non può certo sopportare né il traffico pesante, né flussi intensi di traffico privato. E’ una pista piena di semafori, attraversa decine di centri abitati, anche complicati come Rapallo, Lavagna, Chiavari stessa.

Il timore dell’isolamento, accentuato da condizioni metereologiche, che hanno continuato a martellare la Liguria dal cielo e dal mare per tutto il mese di novembre, viene come esorcizzato a Genova un po’ dal consueto understatment genovese, un po’ da una specie di pudore, come se si respingesse la sensazione che oramai Genova e la Liguria vengono vissute quali l’area delle emergenze, dei rischi e delle allerte.

Cadono i ponti, si mette in discussione la sicurezza di quelli in esercizio, che sono centinaia su un territorio che è infrastrutturalmente fatto di gallerie e di ponti, il maltempo sbriciola il territorio, interrompe, in una grandinata di frane, strade e percorsi alternative alle autostrade, in una specie di meledizione, dove non viene risparmiato nulla, a partire dalle mareggiate che rosicchiano una costa divorata oramai dalle onde, con gravi pregiudizi di prospettive turistiche e ambientali.

Le telefonate da lontano di amici e conoscenti, che si informano sulle condizioni delle allerte e delle emergenze, rimandano bene la sensazione di una terra a rischio: “Come state? Tutto bene?”, si informano, martellati a loro volta dalle notizie a raffica, che Genova e la Liguria fanno rimbalzare con le immagine devastanti dei ponti crollati, delle strade interrotte, delle onde altre dieci metri misurate in mare.

Ci si consola con la costruzione del nuovo ponte, quello che sostituisce il Morandi, che ha già tre impalcati svettanti nel cielo della Valpolcevera, che a aprile sarà tutto in piedi, giura il sindaco commissario, Marco Bucci.

Ci lavorano mille uomini in questo cantiere dei miracoli, in mezzo alla Valpolcevera, non smettono mai, alzano i piloni di calcestruzzo, issano impalcati di acciaio, che vengono trasportati dalle zattere attraccate nei porti con convogli eccezionali, fatti viaggiare di notte nelle strade della città.

Lavorano h 24, non si fermano neppure quando piove, neppure quando le cataratte dal cielo colpiscono le aziende impegnate nella Grande Ricostruzione, insieme a Fincantieri, Italferr, Salini Impregilo.

Vogliono occupare il cielo della vallata con il segno di questo ponte, che non ha ancora un nome, ma lo avrà e si chiamerà Ponte Genova o Ponte 43, con il numero delle vittime e che sembra la chiglia di una nave per come lo ha disegnato Renzo Piano.

Vogliono cancellare l’immagine mozzata del Morandi, che fino al 28 giugno scorso occupava l’orizzonte con la sua sagoma spezzata, quasi le due braccia di un Cristo in croce.

Forse questo è l’esorcismo più forte rispetto all’isolamento che urla in questo autunno maledetto di 1200 millimetri di pioggia caduti, di centinaia di migliaia di metri cubi di frane, di frazioni isolate, di case irragiungibili in un mare di fango.

Alziamo il muovo ponte, facciamolo scintillare nelle sue sei corsie, nei suoi collegamenti con una rete autostradale che sembra perdere pezzi ovunque. In meno di un anno lo abbiamo tirato su.

Alla faccia dell’isolamento. E alla faccia dei Benetton che scrivono ai giornali e si chiamano fuori dalle responsabilità dei loro manager che non hanno curato la manutenzione. Non vogliono essere al centro di una campagna di odio, scatenata contro i concessionari di quello strazio che ha in Liguria il suo epicentro, ma che dal buco nero del Morandi si sta allargando e tutto inghiotte. Senza scampo.