Genova, politici contro tecnici per gli assessori part time di Doria

di Franco Manzitti
Pubblicato il 7 Giugno 2012 - 12:30 OLTRE 6 MESI FA

Palazzo Tursi a Genova

GENOVA – La scena è questa, nel nobile atrio di Palazzo Tursi, chiostro cinquecentesco, scalone d’onore, colonnato con scolpiti nei basamenti “a giorno” i nomi delle dieci delegazioni di cui Mussolini fece una sola città: entra il neo sindaco che va a giurare di fronte al consiglio comunale appena insediato.

Entra Marco Doria, figlio di Giorgio e discendente, dal 1303, da un altro Giorgio che comandò le flotte ispano-genovesi contro i francesi e consanguineo del grande Ammiraglio Andrea Doria, di imperitura memoria. Un Doria quasi cinquecento anni dopo un altro Doria a capo della città: questo un professor di Economia, quello un marinaio, guerriero e grande stratega della guerra, della pace e della finanza nel mondo di allora, dove Genova era una potenza.

Oggi Genova è, ovviamente, un’altra, ha dieci volte di più gli abitanti di allora, ma il suo declino è inarrestabile e questo Doria dal tratto nobile come il primo, nel giorno di questa scena-madre, entra nel palazzo del potere, quasi in faccia alla sua magione di grande pregio e storia nella Strada cosidetta dei Re, non va a giurare di combattere fino alla vittoria finale il nemico “franzese” o turco o spagnolo o inglese o anche veneziano o pisano.

Questo Marco Doria, di 55 anni, l’armatura di un vestito grigio per la prima volta indossato come una nuova veste, lui sempre informale e “scravattato”, il cipiglio severo va a combattere contro l’aliquota dell’Imu, contro le casse vuote di soldi della sua repubblica contro le grandi aziende industriali che vogliono chiudere le ultime fabbriche della città, Ansaldo e Fincantieri e, sopratutto contro i partiti del suo stesso governo, che ha tenuto lontani dalla stanza ristretta della sua giunta, dove ha scelto più donne, tecnici e apartitici che rappresentanti di quel ceto perennemente seduto sugli scranni del palazzo e di tutte le altre torri del potere civico.

Ma la scena madre si colora di buffo o di granguignolesco,  se vogliamo, perché chi c’è nel grande atrio attraversato dal corteo del sindaco, verso lo scalone? Dietro un banchetto, dove si raccolgono firme, ecco la “predecessora” del neo sindaco, Marta Vincenzi , che raccoglie firme per l’abolizione delle sale da gioco in tempi di crisi, invadenti la città da un capo all’altro, dai carruggi che stanno a un metro dal portone di quel palazzo ai quartieri più nobili.

Altro che dignitoso distacco o reverenza nel passaggio delle consegne: la ex signora sindaco, caduta rovinosamente dal cavallo del potere, battuta nella tenzone delle Primarie dall’erede Doria, non si è fatta da parte, non ha accettato la sconfitta con un po’ di quel tatto che alla corte di Parigi chiamerebbe “savoir faire”. Ma è già lì, a marcare il territorio, scesa dallo scranno più alto, dall’ufficio stile Luigi XVI, dalle poltrone di velluto, dagli arazzi, dalle insegne dorate alle piastrelle del cortile. E incrocia il successore che sale lo scalone con il suo seguito, come una supplicante (di firme) saluterebbe il suo Signore.

Ma la Vincenzi, che ha anche chiesto posti e scrivanie e uffici nella sede del Pd per continuare “la sua battaglia politica” e “incalzare il suo Pd” (dal quale aveva dichiarato qualche mese fa di sentirsi oramai estranea) è solo un problema marginale per il Doria che sale ai piani superiori.

La prima grana del suo regno, appena cominciato, rapidamente avviato, altro che la lentezza del Fizzarrotti, grillino sindaco parmense, che la giunta non sa neppure da dove cominciarla, con la formazione del governo in sette giorni e mezzo, sono proprio gli assessori.

Se li è scelti lui, uno ad uno, chiuso in casa con davanti una montagna di curricula ascoltando i partiti come quelli che si fanno entrare il fischio da una orecchia, ma poi lo fanno uscire dall’altra. E ha messo nella stanza dei bottoni sei donne e cinque uomini, facendo esaltare dalle Alpi agli Appennini le quote rosa. E ha scelto molti tecnici e tecniche, a incominciare dall’Assessore alla Cultura, Carla Sibilla, il capo di quel fenomeno di attrazione pubblica che è l’Acquario di Genova della Costa Edutainement, la società creata dalla storica famiglia Costa che attrae con i pesci e le vasche nel Porto Antico quattro milioni di visitatori all’anno, la terza-quarta attrazione italiana dopo la Cappella Sistina, Pompei e gli Uffizi di Firenze.

Solo che questi tecnici, che mollano il loro ruolo (c’è anche il pro rettore dell’Università di Genova, Pino Boero) devono rinunciare in toto alla loro carriera e ai loro emolumenti per andare a incassare i 3500 euro netti al mese, lo stipendio dell’assessore, misurato su quello del sindaco che la Vincenzi aveva scelto con il parametro più basso.

E non a tutti l’operazione funziona. Così si scatenano le prime bagarre, di fonte a quelli che non vorrebbero rinunciare almeno a una parte della carriera e a una continuità anche minimamente contabile. Si è opposto al taglio secco il neo assessore allo Sviluppo Economico, Umberto Oddone, un ingegnere di 44 anni, che faceva il presidente di Datasiel, la società informatica che lavora quasi in monopolio per la informatizzazione della Regione. E lo hanno costretto a dimettersi, rinunciando a quella poltrona informatica.

Poi si è inalberata la giovanissima Lisa Lanzone, la avvenente trentacinquenne, assessora al Personale con esperienze bocconiane e incarichi organizzativi nelle Asl della Liguria e del Friuli. Perché devo troncare la mia carriera?, ha ribattuto la neo assessora, una bionda molto vivace e polemica, proponendo un part time che alla fine la giunta Doria ha inghiottito, mentre tutti i partiti rumoreggiavano: li hanno lasciati fuori dalla stanza dei bottoni, ci hanno messo prevalentemente tecnici e professionisti, che “pretendono” di continuare anche la loro attività “privata”. Mentre loro sì che si sarebbero sacrificati in toto per la causa comune.

Doria sale quello scalone che lo porta nella storica “sala rossa” del Consiglio comunale genovese e sa che le prime frecce avvelenate sono pronte a partire. Un’altra l’ha scoccata un personaggio illustre della città, Carlo Repetti, il direttore del Teatro Stabile genovese, il mitico teatro che fu del grande Ivo Chiesa e del regista Luigi Squarzina, illuso di entrare come vice sindaco di Doria e poi tenuto fuori senza neppure una spiegazione. Il Repetti, che già era stato assessore nel fatidico 1992 del Cinquecentenario colombiano, si è sentito un po’ maltrattato e in una dura intervista all’edizione genovese di Repubblica ha rivolto al marchese-assessore la prima pubblica reprimenda, alla quale si sono poi accodate quelle dei partiti “segati” fuori, in particolare le censure dell’Idv che sedeva in giunta con assessori e molta preponderanza e che sta fuori e molto protesta.

Insomma i tecnici e gli esterni e la autonomia assoluta nella scelta della squadra, esercitata oltre ogni previsione da questo neo sindaco che si era presentato come indipendente del Sel, ex Pci, ma con sottili e importanti appoggi dal mondo trasversale che governa Genova da tempo, tra banche, circoli nobili, Yacht Club e Circolo Tunnel, stanno “arando” il terreno politico genovese con una pervasività assolutamente inattesa. Dietro al marchese, figlio di Giorgio, a suo tempo diseredato per avere scelto il Pci, si sta formando un seguito misto, molto diverso da quello che si poteva prevedere.

L’aggancio con i partiti tradizionali della colalizione di centro sinistra è tenuto in piedi dalla banda dei giovani, il segretario regionale Lorenzo Basso, il commissario provinciale Giovanni Lunardon, l’ex vicesegretario Victor Razeto, tutti ultratrentenni, che colgono la mazzata del cambiamento, ma il ceto abbarbicato alle sedie della politica e della burocrazia si infuria e scalpita e prevede già scatafasci, crisi e cadute rapide di Doria e compagnia cantante.

Nella assenza totale di una destra e di un centro destra, nel quale è rimasto ancor più che nella campagna elettorale solo Enrico Musso, il senatore sconfitto con il 40 per cento, oggi portabandiera unico della opposizione a palazzo Tursi, dietro Doria si sta formando un esercito che per ora va dai grillini, in attesa di mosse contro le grandi infrastrutture della Gronda e della ferrovia veloce del Terzo Valico, ai radical chic, spesso più chic che radical del ceto alto borghese che Blitz ha già più volte descritto.

Il neo sindaco sta già spopolando in tutti gli incontro di formale presentazione che ha, ad esempio presso Confindustria, nel grattacielo denominato della Sip, dove gli imprenditori si incantano a sentire questo professore di Economia. E’ andato perfino a incontrare il cardinale arcivescovo, Angelo Bagnasco nella Curia, sprofondata nei caruggi, lui ateo storico e sembra che il feeling sia scattato. E sembra di vederli questi due personaggi, il cardinale sempre più principe, malgrado le battaglie vaticane e il sindaco-marchese dal pedigree inequivocabile, passeggiare lungo le passiere rosse dell’appartamento in Curia, nella grande sala con i ritratti di tutti gli arcivescovi di Genova, abituati negli ultimi decenni a farsi carico dei destini della città anche in senso materiale e non solo in quello spirituale, da pastori delle anime.

Doria non era salito alla Madonna della Guardia, storico santuario molto caro ai genovesi, nel pellegrinaggio per il lavoro che il cardinale guida sempre negli ultimi giorni di maggio e questo sembrava una presa di distanza da laico duro e puro, inadatto a seguire i canti in latino e le orazioni che seguono la sacra processione in salita verso la Cappella del Beato Pareto e poi verso il grande santuario, in cima al Monte Figogna, che spesso è nelle nuvole in questa primavera umida e piovosa.

Ma l’equivoco è stato chiarito. Nessuna distanza. La Madonna della Guardia unisce tutti i genovesi, comunisti inclusi, e soprattutto su un tema come quello del lavoro, ma solo l’impegno a fare la giunta in fretta aveva tenuto Marco Doria lontano dal pellegrinaggio. E il cardinale ha sorriso, chinando il capo sotto lo zucchetto color porpora, giungendo le mani inanellate di principe della Chiesa.