Genova. Marco Doria con polso da Doge affronta la crisi e cambia idea sul Valico

di Franco Manzitti
Pubblicato il 5 Agosto 2013 - 08:00 OLTRE 6 MESI FA
Genova. Marco Doria con polso da Doge affronta la crisi e cambia idea sul Valico

Marco Doria:un Doge nella crisi di Genova

GENOVA –  Mai un sindaco come quello di Genova Marco Doria ha avuto tanto sangue blu nelle vene, ma mai lo stesso sindaco aveva tanto sangue rosso nelle vene del suo organismo politico, della sua ideologia, per la quale il suo antenato più diretto, cioè suo padre Giorgio, venne definito, negli anni del Dopoguerra quarantotteschi e della guerra fredda, il marchese rosso.

Il marchese Giorgio Doria, padre di questo sindaco Marco Doria, 55 anni che se ne sta nel suo palazzo di Governo in questi giorni di canicola estiva assediato dal popolo che gli urla provocatorio: “Sindaco, fai qualcosa di sinistra!”, oppure più semplicemente: “Vergogna!!!”

Che sta succedendo a Genova, dove ogni giorno quel palazzo di via Garibaldi, definita per la magnificenza dei suoi cinquecenteschi palazzi, la strada dei re, viene percorsa da cortei che vanno a percuotere le ante di palazzo Tursi e si scontrano con i vigili urbani e con i reparti antissommossa dei carabinieri, come ai tempi dell’assedio di Lamarmora nel 1859 le truppe schierate direttamente contro il popolo, senza che ci sia da far pagare una rivolta contro il re Savoia, ma contro il sindaco della città.

Che è stato eletto dal popolo più “rosso” della storia recente, più rosso dei comunisti doc del dopoguerra di scontri frontali tra il Pci togliattiano e perfino secchiano e la Dc di De Gasperi e poi dei Comitati Civici.

Che succede a Doria, eletto tredici mesi fa da una specie di golpe a sinistra sindaco di Genova, issato a impugnare il Gonfalone di san Giorgio da una coalizione orientata a sinistra molto di più che tutti i suoi predeccessori, i “frontisti” degli anni Quaranta e Cinquanta, i demiurghi della “giunte rosse” degli anni Settanta-Ottanta, deciso a portare avanti un programma che faceva fremere di entusiasmo per paradosso qualche strato dell’alta borghesia e della nobiltà genovese residua, che lo aveva votato in nome del suo nobile lignaggio, ma che aveva lo zoccolo duro nei ceti popolari, una volta fulcro della classe operaia che non c’è più, e che ora sta sotto le bandiere del Pd, ininterrottamente al governo da qualche decina di anni nelle sue specie trasformate da Pci a Ds, Pds, e satelliti vari.

Doria è sotto asssedio in una città dove la crisi sta maturando giorno per giorno, capitolo per capitolo, un crack inevitabile: oggi assaltano il portone comunale gli operai dell’a Aster, la società partecipata che si occupa della manutenzione della città, ieri all’assalto c’erano i dipendenti del Teatro Carlo Felice in totale dissesto finanziario , 385 dipendenti, dei quali 48 il sindaco ha annunciato di mettere in mobilità, che vuol dire licenziamento: 23 milioni di euro di uscite all’anno e 19 di entrate uguale fallimento.

Suonano l’ inno di Mameli gli orchestrali in faccia al sindaco, mentre i lavoratori dell’ Amiu, altra società partecipata, battono i tamburi, il giorno dopo. La tensione è tale, giorno dopo giorno, che quel portone pesante viene tenuto chiuso per la prima volta nella storia recente della città.

L’ordine è venuto dal sindaco che non ha accettato più che le sedute del consiglio comunale, destinate in questo finale di stagione, nel cuore di un’estate improvvisamente rovente e non solo meteorologicamente, a votare i conti del bilancio, venissero sistematicamente interrotte da proteste durissime e rumorose.

“È antidemocratico che si interrompano da minoranze le sedute di un organismo che rappresenta tutti i cittadini” ,

ha tuonato il sindaco Doria di fronte al muro a muro innalzato tra i consiglieri chiamati a votare un bilancio drammatico, nel quale sono previste misure che, appunto, tagliano gli organici del Carlo Felice, e esternalizzano la gestione delle società partecipate come l’Amiu, la nettezza urbana genovese, l’Aster della prima furia anticomunale, perfino le Farmacie Comunali e i Bagni Marina, cioè gli asset una volta d’oro del patrimonio municipale e oggi diventati pezzi di scambio per colmare le voragini del deficit comunale, tagliato dalle spending review e prima dai tagli tremontiani.

Povero Doria, discendente di Dogi e Ammiragli della nobile Repubblica che dominò i mari e fece il Secolo d’oro della maxima potenza! Per tredici mesi ha governato la città da sinistra, anzi da più che da sinistra, sostenendo le sue tesi contro le grandi infrastrutture che avrebbero potuto rilanciare i cantieri a Genova, la famosa Gronda-tangenziale e il Terzo Valico, ma che in una ottica rosso-blu non genoano ma nel suo incrocio sanguigno, significavano l’oppressione del popolo schiacciato, espropriato, ambientalmente violentato in cambio di che?

Ora il Terzo Valico è necessario, offre lavoro, filiere produttive e un aggancio con la pianura padana, senza il quale Genova sprofonda nel lago secco delle sue previsioni più negative: senza più giovani, tasso di vecchiaia al boom mondiale, anche gli emigrati in fuga (gia il 12 per cento dei sudamericani, equadoriani in testa, stanno programmando il ritorno a casa), trecentomila pensionati.

Allora ok doriano a questa Grande Opera dalla quale, frattanto, il Governo delle larghe intese ha quatto quatto stornato 650 milioni di euro già stanziati perché i lavori non incominciavano nelle incertezze locali di amministrazione ( salvo poi stornarli ancora sotto la Lanterna all’ultimo Cipe, ma per la pressione più forte del Piemonte e della Lombardia, cui l’opera interessa per non restare un mozzicone del corridoio europeo che Svizzera e Germania stanno già completando sulla rotta Rotterdam-Lisbona, corridoio 15).

Tutti i nodi sono venuti al pettine nell’estate del più grande malcontento, quando la Superba ribolle, come segnata da una sequenza ritmata di sciagure: la tragedia in porto dei nove morti spiaccicati sul MoloGiamo dalla nave Jolly Nero dei fratelli Messina potente compagnia di armatori e terminalisti, la morte con funerali oceanici e contestatori del protettore numero uno del marchese rosso-blù di sangue, don Andrea Gallo, il prete degli ultimi, che aveva benedetto e consacrato la discesa in campo del Doria e poi la raffica delle crisi venute al pettine nel bilancio comunale, costretto a considerare gli esuberi nelle aziende partecipate e a fare i conti dopo anni di rinvii dentro al mitico carlo Felice, il grande tempio della lirica che da anni strascina il suo monumentale deficit, qiasi 400 dipendenti, produzione oramai ridicola, sponsor in fuga da tempo e quel colossale edificio ricostruito nel centro della città, nella piaza De Ferrari con una torre che sembra quella della piazz Tien an men di Pechino per pretesa spetaccolare, ma è vuota e inutilizzata.

E poi la Fiera del Mare, l’ente di cui il Comune è socio, che taglia 31 dei suoi 58 dipendenti, perchè non ce la fa più neppure il salone Nautico, una volta fiore all’occhiello mondiale e oggi ridotto a un Padiglione solo e a una piccola esposizione sul mare per poco più di un week end di inizio ottobre.

Sic transit gloria mundi, atque di Genova, il cui sindaco con l’aplomb dei magnanimi lombi è costretto a uscire dai suoi palazzi, non solo quello dove ha sede il Comune ma anche da quello dove risiede, nella stessa nobile strada, la via Garibaldi e brandisce la spada dei tagli.

È lui a annunciare i licenziamenti del Carlo Felice, non primus inter pares di una giunta che è assediata dal suo popolo, ma primo in assoluto di una sequela di primi cittadini che mai avevano osato tanto nell’ombelico della cosiddetta roccaforte rossa.

Negli anni Ottanta un suo predecessore, il socialista lombardiano Fulvio Cerofolini dovette affrontare un finimondo, perché l’ Italsider trasferiva quarantacinque lavoratori da una fabbrica all’altra, nel cuore del Ponente operaio e, ovviamente “rosso”. Quarantacinque operai dallo stabilimento della Valpolcevera di Campi a Cornigliano. Trasferiti, solo trasferiti.

Oggi a Campi c’è l’ Ikea, l’ Aquilone e la Sogegross e una grande fabbrica di gelati, Tonitto, mentre l’acciaieria Italsider del padrone Ilva è diventata un avamposto con la maggior parte dei dipendenti in cassa integrazione o con contratti di solidarietà, il paron Riva scarcerato da poco per il grande caos di Taranto e pochi giorni fa, in una di quelle serate d’estate di canicola triste per la crisi, sono tornati i suonatori cileni “Inti Illimani” a cantare dove c’era il vecchio altoforno la canzone “El pueblo unido jama sera vencido”, che marchiò non solo la storia drammatica del compagno presidente, Salvador Allende e del generale golpista, Augusto Ugarte Pinochet, ma che condì i famosi spaghetti in salsa cilena di un accordo auspicato anche in Italia tra l’allora Dc e l’allora partito Comunista……..

Che tempi da pueblo unido oggi qua il pueblo è licenziato! Il sindaco Doria in queste vicisittudini di bilancio, tagli e assedi al suo palazzo assiste al tradimento della sua lista di extrasinistra, che gli vota parzialmente contro e si trova in braccio al Pd, che lui aveva sconfitto, appunto da sinistra, per conquistare il trono da sindaco. E tra i suoi alleati nelle misure degli tagli e delle privatizazioni si trova a fianco il suo concorrente da destra, l’ex senatore Enrico Musso, sconfitto nel ballottaggio comunale.

Altro che salsa cilena o pesto genovese, oramai tutti gli schemi sono saltati e ciò che veramente salta ancora sono i delfini delle nuove vasche dell’ Acquario genovese, unica attrazione che resiste ed anzi si amplia sotto il marchio dei Costa, storica famiglia, passata dalle rotte da crociera all’ entertainement, e sotto il disegno di Renzo Piano, archistar che è venuto a Genova a battezzare il super Acquario con la sua barba bianca e le sue parole flautate.

Piano ha fatto la sua presentazione in cima alla vasca di cristallo dell’ Acquario ampliato. Ma guardava la città dal cuore del vecchio porto, tra le banchine restaurate, con a fianco il sindaco pallido e davanti le praterie del Mar Ligure, allargate verso l’orizzonte blu di un’estate molto difficile e speciale.

In fondo non era il grande storico francese Fernand Braudel, studioso del Mediterraneo, a sostenere che il futuro di Genova, la sua speranza, è in quel terreno lì, negli spazi aperti del mare, con quelle banchine cariche di storia di potenza e ricchezza dietro.

Alle spalle ci sono i tumulti che un Doria, un altro Doria di quella lunga storia, affronta con il cipiglio del Doge, almeno questo gli va riconosciuto, ora che tutte le coerenze politiche sono saltate e andate a fondo.