Genova, Doria sindaco ma dopo il ballottaggio, trionfano Grillo e il no

di Franco Manzitti
Pubblicato il 7 Maggio 2012 - 23:58| Aggiornato il 8 Maggio 2012 OLTRE 6 MESI FA

Non lo sanno neanche, mentre discutono fino a notte fonda e, tra sondaggi e proiezioni e uno spoglio delle schede elettorali di lentezza esasperante, fino al ballottaggio tra il quasi 49 per cento di Marco Doria (centro sinistra) e il quasi 15 per cento di Enrico Musso (lista civica e Terzo Polo). Non lo sanno neppure che le elezioni a Genova le ha vinte in larga misura chi non è andato alle urne, chi ha sprecato il proprio voto facendosi annullare la scheda, chi ha votato bianco e, infine chi ha scelto la nuova strada rivoluzionaria di Beppe Grillo e del suo Movimento delle Cinque Stelle, portando il candidato “grillino” a una spanna dal ballottaggio.

A Genova ci sono tre boom: quello di Grillo e del suo candidato sindaco, Paolo Putti, quello del partito del non voto, che sfiora il 45 per cento e quello delle schede nulle o bianche, che sono quasi 15 mila, un partito vero. Messi assieme tutti questi non voti o voti sbagliati o voti fuori dal sistema politico, che ieri è praticamente crollato quasi ovunque in Italia, sono quasi trecentomila in una città che chiamava alle urne 502 mila abitanti.
Il boom dei grillini, che Blitz in solitudine assoluta aveva previsto a Genova lo scorso 30 aprile, “segna” il voto nella Superba e di fatto tiene sotto la quota del 50 per cento la coalizione che aveva incoronato, dopo lotte fratricide sanguinose, Marco Doria per la prima volta da quindici anni. E costringe il marchese erede Doria a “sopportare” il ballottaggio con Enrico Musso, contendente in larga minoranza per il suo risicato 15 per cento, rischiando poco, ma restando in ballo ancora quindici giorni in un clima molto avvelenato.
Nel giorno in cui a Genova si riaffaccia lo spettro, apparentemente sepolto trenta anni fa del terrorismo, con la gambizzazione dell’ingegnere Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, crollano molti pilastri, molte certezze anche nella roccaforte “rossa”, abituata a vincere se non stravincere sempre alle Comunali, alle Provinciali, alle Regionali, alle Politiche, con rarissime eccezioni nella storia. Crollano i consensi per il Pd, che si era dovuto inghiottire il candidato Marco Doria, indipendente del Sel, dopo essersi suicidato nelle Primarie: l’erede del Pci da 43 per cento degli anni Settanta-Ottanta piomba dal 31 per cento delle ultime Regionali di due anni fa al 24 per cento e non si consola certo con il successo della lista Doria. Galleggia su un cinque per cento l’Idv di Di Pietro, con tutte le sue distanze dal centrosinistra, insieme al quale governa, comunque, la Regione del governatore Claudio Burlando. Sta allo stesso livello del 5 per cento, Sinistra Ecologia e Libertà che esulta, ovviamente, come se avesse vinto la Coppa dei Campioni. Nessuna traccia o quasi del Partito Socialista, nato proprio a Genova, che si era ammucchiato su Doria e esce con lo 0,87 per cento.
Crolli a sinistra e a destra una vera catastrofe politica, a incominciare dal risultato di Pierluigi Vinai, il clerico-candidato, benedetto dalla Chiesa, ma che è stato spazzato via e si aggrappa a un 12 per cento. Come stupirsi? Il Pdl prende l’8,9 per cento, sprofondando da percentuali che negli anni Novanta lo avevano provvisoriamente fatto diventare perfino il primo partito della città. Nella città di Francesco Belsito, il tesoriere della Lega dai lingotti d’oro, dei conti in Tanziania e a piede di lista pagato al “Trota” Renzo Bossi, la Lega si dimezza e passa al 3,5 per cento, azzoppando il suo candidato Edoardo Rixi, che solo grazie alla sua lista personale “agguanta” il 4 per cento.
Se si pensa che nel 1993 il candidato della Lega, Enrico Serra, un medico, aveva ottenuto un risultato superiore al 40 per cento e che quattro anni dopo un altro candidato leghista, un altro medico, Sergio Castellaneta, si era giocato il ballottaggio con il democrat Beppe Pericu, perdendo per soli 7.500 voti……
Insomma il galeone di Marco Doria, che fino al novembre scorso era conosciuto solo per il suo illustre e nobile cognome e per il fatto di essere il figlio del “marchese diseredato”, dopo avere scelto scelto la militanza nel Pci ed oggi è il campione che quasi sicuramente salverà la Sinistra, galleggia su un mare di macerie.
La sfida con Enrico Musso, cinque anni fa candidato dell’allora Forza Italia, giunto oltre il 47 per cento e poi decollato per primo verso una galassia politica senza partiti, ma con lo scudo del seggio senatoriale che gli era venuto da Forza Italia (per questo i beluscones lo chiamano “traditore” e non lo hanno votato) sembra una battaglia residuale.
Doria sicuro di vincere, di agguantare quel tre per cento che si è polverizzato chissà dove tra il boom grillino, le schede mal scritte e il mare magnum del non voto.

Musso che, partendo molto dal basso, vede almeno la possibilità di una sfida diretta, faccia a faccia, il professore di Economia dei Trasporti contro quello di Storia delle Dottrine economiche, docenti nella stessa Facoltà, le aule allo stesso piano. Per tutta la campagna elettorale Musso ha cercato di confrontarsi da solo con Doria, ma in mezzo c’erano altri undici candidati e una certa schizzinosità del marchese che ha evitato molti dibattiti frontali. Già nella notte elettorale i due hanno incominciato a aggredirsi, nello sterminato bla bla televisivo, andato in onda ininterrottamente per dodici ore. Lo schema dello scontro è facile: Musso “smarcato” dai partiti da oltre due anni cerca di presentarsi come “il nuovo” che emerge da una sistema partitico crollato e accusa il suo avversario di essere la continuità con un potere che governa in maniera fallimentare Genova da ventidue anni.

Doria cerca di tenere le distanze dal Pd, soprattutto dai suoi onnivori apparati che “occupano” ogni stanza di quel potere genovese, da quello burocratico a quello economico delle Coop, all’intellighenzia culturale, ma, formando la sua giunta, dovrà già fare i conti con equilibri che per ora può permettersi di guardare un po’ dall’alto.
L’abisso di consensi tra i due, misurato nel consenso del primo turno, è apparentemente incolmabile. Ma è abissale anche la voragine del non voto, del voto sbagliato, del voto bianco ed è rimontante quella che fino a ieri chiamavamo antipolitica e che qua con Grillo&Company vola quasi al 14 per cento. Nella notte Grillo, dalla elegante collina di Sant’Ilario, dove abita, urla alla vittoria e avverte: “Attenti che i partiti si stanno liquefacendo.” Pd compreso. E i terroristi, se sono loro quelli dell’agguato genovese, hanno ricominciato a sparare. Ma questa è un’altra storia.