Ilva Genova: Natale di lavoro, Befana d’attesa

di Franco Manzitti
Pubblicato il 13 Dicembre 2012 - 09:34 OLTRE 6 MESI FA
Operai dell’Ilva di Genova

GENOVA – Stanno chiusi dentro la fabbrica in millesettecentosessantacinque operai, impiegati, generazione giovane tra i trenta anni scarsi e i cinquanta, non di più, “Generazione Nutella” li avevano ribattezzati qualche anno fa, quando paron Emilio Riva, il padrone, il “mangianebbia”, come lo chiamava, sfottendo la sua origine lumbard, dall’altra parte del grande porto genovese, Paride Batini, il mitico console dei camalli, aveva ottenuto l’ultimo accordo di concessione che perpetuava il suo dominio e prometteva altri investimenti, altre strutture di produzione e, quindi, tecnici, nuovi, giovani, pimpanti. Appunto Generazione Nutella.

Erano solo sette anni fa e sembra un secolo. Stanno ad aspettare chiusi nel cuore ombelicale di Cornigliano, il quartiere genovese dell’acciaio, della acciaieria costruita negli anni Cinquanta, ricostruita con grandi sfavillii e universale consenso popolare, sindacale e politico del Pci, allora dominante, nel 1978, venduta dall’Iri ai privati nel 1989, passata a lui, il “ mangianebbia”, stanno a aspettare i lavoratori dell’Ilva.

Aspettano le sentenze dei giudici di Taranto, i decreti del governo da trasformare in legge, malgrado la crisi di Berlusconi contro Monti, le decisioni finali della famiglia padrona Riva, di questa dinastia, i cui capi qui sono sfilati uno ad uno, arrivati, ripartiti, Emilio, il vecchio, poi i suoi proconsoli, tutti i figli di due matrimoni, il Claudio, che sembrava il più stanziale, il più dialettico malgrado il muso duro e poi il Daniele, il più giovane, quasi un Carneade e il Fabio, il fuggitivo di oggi.

I padroni, i capi e i loro manager se ne stavano nella grande villa Bombini, gioiello seicentesco degli uffici della Ilva spa, una specie di fungo di stucchi, scalinate, finestroni, piano nobile e saloni, in mezzo al deserto della “mezza acciaieria”. Sì proprio “mezza” perché è diventata tale da quando, nel 2005, si è spento l’altoforno “a caldo” e la prateria immensa concessa a Riva per 90 anni ancora ha cambiato i suoi connotati, riducendo la lavorazione solo all’impianto “a freddo”.

Una parte di quel territorio, tra la città e il mare, anzi sopra il mare coperto con le gettate di cassoni e cemento a riempire le onde e a basare le fondamenta per quello che era diventato “Il Mostro” sputafuoco, sputafumi, la macchina dell’acciaio, è diventata un semi deserto. Là dove c’erano la “colata continua”, le linee di produzione lunghe chilometri e le cokerie, gli agglomerati, come si chiamavano e si chiamano ancora i pezzi di questa fabbrica onnivora e immensa, dove gli uomini sembravano puntini blu che riconosci solo perché hanno un casco in testa, magari una maschera anti fuoco che spesso non li protegge, ora ci sono gli avanzi sperduti di una colossale demolizione.

Via l’altoforno, sette piani di acciaio contorto, di ciminiere, di camini neri, di pareti color nerofumo, via tutto il resto. Ci sono magazzini sperduti, strade tortuose delimitate da barriere di metallo sbattacchiato dal vento e il vuoto che corre verso il mare, le banchine del molo ex Italsider, oggi Ilva.

Prima gli uomini, i lavoratori erano qua dentro come formiche in una foresta di fumo nero, fuoco, fiamme, capannoni, rumori sordi e, di colpo, assordanti botti da turarsi le orecchie. E tutto questo in mezzo a una città, qui a Cornigliano tra il mare che non vedi più con quelle banchine lontane e fredde e le case della delegazione, magari ancora costruite con uno stile anche un po’ pretenzioso, con il bucato stese nelle facciate laterali, nella pretesa di salvare il bianco dei panni lavati, dal Mostro sputa fumo nero: la ricerca della normalità a due passi dall’inferno. Questo era Cornigliano ieri, e oggi che cosa trovi?

Stanno i millesettecentosessantacinque dell’Ilva di Genova nella fabbrica residuale di quel vecchio inferno, una fabbrica che va avanti ancora per centinaia di metri, di fianco alla villa degli uffici direzionali, mattoni rossi , capannoni immensi, una cesura continua tra la città e una specie di nulla che arriva al “porto dell’acciaio”.

Aspettano, gli operai e gli impiegati, non solo le sentenze, i verdetti e le decisioni ma sopratutto che arrivino le navi da Taranto, cariche di materiale lavorato laggiù e da raffinare qua, secondo quel ciclo di produzione che sta per interrompersi come la vena di un corpo umano quando arriva il colpo, l’ictus.