Ponte Morandi, a Genova venerdì 15 a processo in 59 nella tenso struttura vicino a dove Balilla lanciò il sasso

di Franco Manzitti
Pubblicato il 14 Ottobre 2021 - 07:46 OLTRE 6 MESI FA
Ponte Morandi, a Genova venerdì 15 a processo in 59 nella tenso struttura vicino a dove Balilla lanciò il sasso

Ponte Morandi, a Genova venerdì 15 a processo in 59 nella tenso struttura vicino a dove Balilla lanciò il sasso

Ponte Morandi, tre anni dopo la catastrofe, il giudizio. Ogni delitto grande e piccolo ha il suo corpo del reato, che cambia a seconda dei fatti che si devono giudicare. Spesso il corpo del reato sparisce e gli inquirenti lo cercano come la prova regina per condannare i colpevoli. A volte, invece, lo si trova subito e diventa la svolta determinante dell’inchiesta.

Altre volte viene trovato anni dopo i fatti criminosi e costituisce un vero colpo di scena, magari inatteso.

In questo processo, che sta per incominciare a Genova sul crollo del ponte Morandi, il corpo del reato è immenso.

Quello che avrà inizio venerdì 15 ottobre è uno dei più importanti processi nella storia giudiziaria post bellica non solo della città. Si attendono verità fondamentali sulla tragedia così grande, che nasconde ancora molte ingiustizie commesse e alcune ancora in corso,

Incomincia da quella voragine lunga 250 metri, apertasi il 14 agosto 2018 alle ore 11,37 di una giornata prefestiva, funestata da un nubifragio con tuoni e fulmini in mezzo al ponte che aveva 55 anni di età.

Nel volo di quel pezzo di autostrada, centinaia di quintali di cemento e di ferro caduti da un altezza di sessanta metri, fino al greto del torrente Polcevera, morirono 43 persone. Viaggiavano per caso in quel momento su quel ponte, percorso incessantemente da milioni di persone, da milioni di veicoli.

I capi d’accusa per il crollo del ponte

Sono questi quintali di macerie il primo corpo di questo reato che prende tanti titoli. Omicidio colposo plurimo, crollo colposo, omicidio stradale, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Sono la ferita più sanguinosa e insanabile, ma non sono il solo corpo di reato che il delitto del Morandi ha lasciato sul terreno in quella terribile giornata di quasi Ferragosto. Con il suo seguito di morte, distruzione, di danni catastrofici. Provocati a chi viveva, lavorava, abitava sotto il ponte, in mezzo a quella valle spezzata in due dal crollo.

Separata dalla città intera, a sua volta separata dal resto del territorio, in un nodo cruciale di collegamento tra Genova, il suo porto, le autostrade, i trasporti verso il resto dell’Italia e dell’Europa, strappato in quel momento del crak.

Tre anni e 2 mesi dopo il crollo del ponte 

Il corpo del reato lo misuriamo ancora oggi, tre anni e due mesi dopo la tragedia, quando nell’aula del palazzo di Giustizia incomincia l’udienza preliminare, venerdi 15 ottobre. Quando la giudice Paola Faggioni dovrà incominciare a ammettere le parti civili. Tra le quali, in ultimis, il Comune di Genova e in zona Cesarini perfino la Regione Liguria.

Solo dopo il giudice vaglierà la posizione dei 59 indagati. La Procura della Repubblica li ha indicati tra i possibili imputati, alla fine di una delle indagini più complesse e impegnative della storia giudiziaria recente.

Ci vorranno molte udienze -tre a settimana previste fino a dicembre- prima dell’eventuale rinvio a giudizio. Che porterà sul banco degli accusati i probabili responsabili del crollo. Li hanno individuati i pubblici ministeri Vincenzo Terrile e Walter Cotugno, coordinati dall’oramai ex procuratore capo, Francesco Cozzi, andato in pensione proprio firmando quella richiesta al Tribunale.

Potrebbero essere rinviati a giudizio tra gli altri Giovanni Castellucci, l’ex amministratore delegato di Autostrade, Michele Donferri Mitelli. E poi Paolo Berti, direttore delle Manutenzioni e capo delle Operazioni presso Aspi, Massimiliano Galatà e altri dipendenti di Spea.

Per la Guardia di Finanza, che ha svolto la maggior parte delle indagini, al comando del colonnello Ivan Bixio, molti degli indagati conoscevano le condizioni precarie del ponte Morandi, sapevano dei rischi. Ed è per questo che tra quei 59 ci sono tanti responsabili di Autostrade e di Spea. E dirigenti e funzionari del Ministero dei Trasporti, addetti ai controlli della sicurezza.

Un processo per il crollo del ponte che durerà mesi

E tutti costoro, se rinviati a giudizio, dovranno essere processati nelle udienze che incominceranno all’inizio del 2022 e dureranno presumibilmente fino all’estate.

Il corpo del reato continuerà ad essere esposto anche clamorosamente davanti a tutti. Durante le due fasi cruciali del Grande Processo, fino alla sentenza, fino alle decisioni precedenti di ammettere come parti civili tanti soggetti. A partire dai parenti delle vittime, risarciti al 95 per cento per i famigliari persi nella tragedia. Ma ancora determinati a chiedere giustizia.

Nulla è stato cancellato, anche se il ponte Morandi è stato ricostruito così rapidamente dal commissario-sindaco, Marco Bucci e dal suo staff speciale e quella ferita è stata ricucita.

Infatti tutto il resto delle rete autostradale genovese e ligure e non solo è ancora a cielo aperto una ferita. Sulla quale si dovrebbero prodigare e in pratica si prodigano centinaia di cantieri di riparazione e manutenzione. Che sono diventati la croce dei Trasporti in Liguria e per la Liguria.

Altri crolli altre voragini

Da quella voragine, apertasi per la ignobile leggerezza dei concessionari della Spea e dell’Aspi, dei gruppi privati a maggioranza famiglia Benetton. Che gestiva quel tronco autostradale per conto dello Stato (che doveva controllare). Se ne sono aperte centinaia, se non migliaia di altre, provocate in qualche caso direttamente da crolli. Come quello della galleria Bertè sulla A26, Genova-Gravellona Toce o del viadotto sulla A 6, Savona-Torino o dal lavoro di controllo suscitato dalle inchieste giudiziarie.

Questo era stato richiesto dalla Procura di Genova, che, indagando sul Morandi, aveva scoperto una immane sequenza di omissioni, di superficialità e di omesse operazioni di messa in sicurezza.

Come una ragnatela questi controlli mancati sono stati scoperti ovunque sulla rete ligure, anche oltre i suoi confini e oltre la titolarità della concessione a Benetton e soci.

Il corpo del reato: il ponte

Per questo oggi il corpo del reato su cui si indaga si allarga a dismisura rispetto alla voragine iniziale e ciò che accade in conseguenza della sua scoperta diventa molto importante all’esterno del Grande Processo. Ma magari al centro di altre vicende che si svilupperanno inevitabilmente.

Quelle centinaia di cantieri stanno bloccando il traffico. Rallentandolo oramai da ben oltre un anno. Provocando danni immensi ai settori economici importanti che gravitano intorno allo sviluppo della Liguria. Tra porti, appunto autostrade, collegamenti e relazioni di ogni tipo.

Da allora è come se tutto, tra le autostrade A12, A6, A10, A7 e A 6, che confluiscono verso Genova, verso l’epicentro del ponte ex Morandi, trattenesse il respiro in attesa che un incubo finisca. L’incubo di viaggiare per affari, per turismo, per sport, per cultura per ogni diavolo di ragione, continua coda dopo coda, con i tempi di percorrenza triplicati, quadruplicati. Mentre i pedaggi autostradali che le società concessionarie incassano restano sempre gli stessi, che tu impieghi due ore e mezzo o sei tra Ventimiglia e Milano o Torino.

Chi pagherà alla fine tutto questo, mentre il Grande Processo marcia verso la sua prima sentenza?

Intanto a giugno Atlantia, la finanziaria dei Benetton ha a larga maggioranza approvato la vendita di Autostrade a Cassa depositi e prestiti e a due fondi sovrani per un prezzo di 9,3 miliardi, dei quali quasi 5 resteranno nelle loro casse.

La finanziaria holding fino alla fatidica estate del 2018 registrava i maggiori flussi di capitali. Grazie a quanto incassava Aspi, appunto la società delle autostrade. Visto dalla parte dello Stato, cui Autostrade ritorna dopo 22 anni da quella storica privatizzazione, l’operazione ha questi numeri. 6,8 miliardi ai tempi della privatizzazione che valgono i 9,1 miliardi spesi per la “recompra”.

Questi freddi calcoli, che illuminano l’affare di Benetton e soci nel corso di tutta l’operazione autostrade, non possono che incendiare sia il processo che si apre. Sia il resto che potrebbe aprirsi dopo, come conseguenza di quel terremoto giudiziaria e dei suoi rimbalzi.

La revoca della concessione del ponte e dell’autostrada

Dopo il disastro, l’avevano ampiamente strombazzata a poche ore di tempo dall’allora premier Giuseppe Conte e soprattutto dal Movimento 5 Stelle. E sostenuta per anni senza che mai nulla si muovesse, alla fine non è avvenuta.

Non solo. I concessionari sul punto di uscire definitivamente (il closing dell’operazione con Cdp è previsto nei primi mesi del 2022 in parallelo con le udienze del processo) hanno addirittura incassato quei 9 miliardi più spiccioli, uscendo alla fine di una trattativa non di un revoca.

Con un calcolo imbarazzante per la sua crudezza: per ognuna delle 43 vittime del Ponte Morandi gli azionisti si sono messi in tasca molte centinaia di milioni di euro.

Uno scandalo che le parole del procuratore capo facente funzione a Genova nei giorni di attesa della prima udienza fanno rimbombare ancora più forte. Rispondendo a un’intervista l’alto magistrato, Francesco Pinto, ha dichiarato di essere rimasto molto colpito “dalla sfrontatezza e dal cinismo degli indagati sul tema della sicurezza del ponte”.

Lavori rinviati per non perdere traffico

Secondo quanto raccolto dagli uffici inquirenti, infatti, molti lavori strutturali e urgenti sul Morandi sono stati rinviati nel corso degli anni per seguire la logica del risparmio e dei maggiori dividendi. La coscienza del rischio era ben presente. E non è un caso che una grande operazione di “retrofitting”, cioè di consolidamento di uno strallo della vecchia struttura, era stata programmata per una data appena successiva al fatale 14 agosto 2018-Dopo che il traffico estivo avesse esaurito le sue correnti principali.

Ma ora silenzio e porte chiuse nella tecno struttura costruita nello storico cortile del palazzo di Giustizia genovese, a pochi passi da dove trecento anni fa il Balilla, Giovanni Battista Perasso, ragazzo genovese, lanciò il suo sasso contro gli austriaci invasori, ha inizio il processo. E si può urlare forte quello che quel ragazzo lasciò nella storia genovese lanciando la sua pietra e con essa la guerriglia: che l’inse!!!! Che incominci, il processo e la ricerca della giustizia.