Sampdoria, morto Riccardo Garrone il “petroliere contro”

di Franco Manzitti
Pubblicato il 22 Gennaio 2013 - 01:11 OLTRE 6 MESI FA
Riccardo Garrone (foto Ansa)

GENOVA –  Se ne va, dopo un paio di mesi di un silenzio inusuale per lui, Riccardo Garrone, l’imprenditore-petroliere, che petroliere non era più da tempo, grande protagonista della vita genovese, presidente della Sampdoria, la penultima sfida sportiva di un uomo di grande carica passionale. L’ultima sfida è stata quella che lo ha portato via, contro un tumore al pancreas che lo ha piegato dopo tre anni di una battaglia a viso aperto.

Aveva settantasei anni, sei figli, una grande azienda, la Erg, ereditata dal padre Edoardo, che quando lui aveva solo 28 anni morì improvvisamente e lo lasciò solo al comando di una impresa, incominciata con la raffinazione del petrolio e diventata via via leader mondiale nel settore petrolifero e poi in quello delle nuove energie.

La sua vita piena, densa di imprese, non certo solo quella petrolifera- imprenditoriale, così sapientemente trasformata, ha tracciato a lungo il percorso di Genova e non solo. Garrone era un uomo-imprenditore-leader dal carattere forte, umorale, passionale e non ha mai scartato nessun ostacolo, potendosi permettere battaglie frontali nell’economia, nella politica, nella vita civile, in quella culturale artistica, perfino in quella dello sport, nel momento in cui, anno 2003,  fu costretto a comprarsi la Sampdoria, per impedire che la società fallisse.

Era un generoso senza peli sulla lingua, ma anche un avversario durissimo e senza mai possibilità di mediazioni, sia che si trovasse di fronte un suo amministratore delegato da licenziare e sostituire, sia che combattesse contro un sindaco della sua città o contro il sistema dei partiti.

La sua grande notorietà italiana era cominciato all’inizio degli anni Settanta, quando era esploso lo scandalo dei petroli, quello che avrebbe marchiato la vita politica italiana, perché attraverso quell’inchiesta, lanciata dai tre pretori d’assalto genovesi, Adriano Sansa, Carlo Brusco e Mario Almerighi, si scoprì il finanziamento dei partiti da parte degli imprenditori. I finanzieri, lanciati dai tre battaglieri giudici genovesi, antesignani dei magistrati di Tangentopoli, comparsi sulla scena una ventina di anni dopo, scoprirono negli uffici della Erg in Valpolcevera, periferia industriale di Genova, sede dei depositi di petrolio della Erg, le prove di quei finanziamenti ai partiti. Il problema dei soldi alla politica che tutt’ora frigge, malgrado i cambi di sistema e la morte della Prima e della Seconda Repubblica, nacque lì in quella inchiesta, che obbligò il Parlamento alla prima legge sul finanziamento pubblico dei partiti.

Garrone, che era al timone della sua azienda già dal 1963, quasi imberbe successore del padre ucciso da un folgorante e inatteso infarto, durante una battuta di caccia al salmone nei mari del Nord, era già stato sulla cresta dell’onda della cronaca grazie a Radio Gap, una emittente clandestina e rivoluzionaria dei cosidetti “Tupamaros della val Bisagno”, i nonni delle Br genovesi, quelli della banda XXII Ottobre.

Con un blitz sulle linee di trasmissione tv quella radio interruppe un sacro Tg della sera per lanciare un messaggio di rivolta, che si sovrappose al volto del conduttore Rodolfo Brancoli con l’annuncio di un attentato ad Arquata Scrivia contro i depositi di petrolio del “fascista Garrone”. Era l’aprile del 1972 e Giampaolo Pansa, allora inviato della Stampa, aveva portato con la sua impeccabile cronaca alla notorietà il nome di quella famiglia genovese, che stava diventando grande e potente nell’economia genovese e in quella del paese.

Garrone non era certo un “fascista”, ma un padrone da combattere nella Genova del Pci dominante, dove le amministrazioni rosse stavano per prendere un potere che in qualche modo, attraverso grandi trasformazioni e cadute di muri ideologici ed anche fisici, nella città dura ancora. La Valpolcevera era invasa dai depositi della Erg, la fiamma della raffineria bruciava notte e giorno a San Quirico, illuminando una periferia dura, operaia, fortemente mobilitata.

La storia pubblica di Riccardo Garrone, tanto fitta da risultare quasi enciclopedica, nasce lì in quegli anni, tra Radio Gap, i pretori d’assalto e le raffinerie da sloggiare. In quegli anni Riccardo Garrone, “Duccio” per gli amici, anche per quelli di una borghesia di armatori, industriali, riparatori navali, broker, grandi professionisti marittimi, che mai lo amò collettivamente, anche se per due volte gli affidò la presidenza della Associazione Industriali, divenne l’uomo “contro”, l’alter ego di quel potere che si apprestava a governare il territorio genovese.

Bisognava avere a che fare con Garrone e le prime mosse di quella lunga guerra di posizione, poi diventata con i lustri e i decenni una contesa di progetti, poi un confronto, poi un dialogo, poi spesso solo una diversità di opinioni, incominciò proprio per definire il destino di quei depositi di petrolio. Sarebbe finita che i sindaci come il socialista lombardiano Fulvio Cerofolini, regnante fino al 1985 con un Pci granitico a fianco, avrebbero respinto tutte le proposte di Garrone per configurare un destino diverso e “mediato” con la città della raffineria, ma che poi la soluzione sarebbe saltata fuori, liberando la valle e scambiando quell’industria petrolifera con spazi pubblici, grandi supermercati, quartieri residenziali, alberghi. Ma ci vollero anni e grandi mutazioni, mentre Genova si de industrializzava e Garrone diventava…..Garrone.

La Erg ampliava i suoi orizzonti verso la Sicilia, verso Melilli, l’altra grande Raffineria, solo da poco quasi interamente venduta in cambio di partecipazioni kolossal a imprese energetiche e fotovoltaiche. E Riccardo Garrone assumeva sempre di più un ruolo pubblico, diventando presidente degli industriali per la prima volta nel 1984, quando anche per lui si era allontanata la minaccia pesante degli anni di piombo, oramai tramontati non senza avere costretto la sua famiglia a lasciare la residenza genovese a rifugiarsi con tutti i figli, allora ragazzini, in campagna a Grondona, provincia di Alessandria.

Erano stati anni duri di rapimenti come quello di Piero Costa e gambizzazioni, quelli che avevano lacerato la città della potente colonna Br, tra i cui capi c’era anche quel Prospero Gallinari appena scomparso e Garrone li aveva vissuti ben esposto, anche attraverso pubblici e clamorosi conflitti interni alla categoria imprenditoriale, come quello che divise i Garrone dai Costa, la grande famiglia di industriali e armatori, all’inizio della propria crisi, nella vertenza della Verrina, una azienda meccanica che i Costa avevano ceduto a Garrone.

I Costa contro i Garrone sulla scena della città dello strapotere Pci-Psi, dell’industria privata in declino inarrestabile, dei primi scricchiolii nelle industrie di Stato: una contesa di stili e di caratteri, che contrapponeva quasi due dinastie, una calante,i Costa, l’altra rimontante, i Garrone. “Duccio” era estroso, spesso straripante, forgiato da queste battaglie interne ed esterne. Si dimise dalla presidenza dell’Associazione Industriali per protesta contro il sistema dei partiti che aveva fatto nominare il manager di scelta craxiana, Roberto D’Alessandro, alla presidenza del Porto, invece di scegliere nella rosa di candidati di taglio confindustriale che lui aveva scelto.

Poi tornò sulla poltrona di presidente di una Associazione della quale si era vantato di avere trasferito la sede dal salotto buono di via Garibaldi, la famosa via Aurea a una palazzina sopra la stazione ferroviaria di Brignole. “Tanto per rompere con il passato, con lo stile di sobrio understatment di una classe imprenditoriale da svecchiare e riformare”, aveva spiegato.

Aveva del fegato e delle visioni molto avanzate, come quando portò, suscitando un finimondo nella città e sopratutto nel sindacato, gli americani della Disneyland all’Italsider di Cornigliano, che lui proponeva come futura possibile sede europea. Disneyland, come si sa, finì a Parigi, ma Garrone aveva visto dieci anni prima la fine della siderurgia pesante e un nuovo destino per quella periferia genovese affumicata dagli altoforni.

Oramai il salto “pubblico” era compiuto e Garrone, deluso dai continui rifiuti ai suoi progetti di ridisegno della città, spesso furibondo perché l’ordine istituzionale costituito respingeva anche quegli studi costosi da lui affidati a grandi esperti come quelli della Mc Kinsey nella fine degli anni Ottanta, si gettò in prima persona nell’agone politico, candidandosi a un seggio senatoriale per il Pri.

Il suo concorrente era niente meno che Guido Carli, l’ex governatore della Banca d’Italia. Finì con un’altra delusione, né Garrone, né Carli senatori a Genova, ma il solito democristiano che prendeva voti trasversali in una circoscrizione borghese della città. Garrone non era mai domo anche dopo le sconfitte e poi aveva una generosità crescente e sempre più solida grazie all’espansione della Erg. Solo grazie a lui si inaugurò e si mantenne per anni e anni fuori dai gorghi del deficit il ricostruito teatro dell’Opera, Carlo felice, che amministrazioni pubbliche squinternate e poco preveggenti avevano voluto riedificare con una esagerata magnificenza nel cuore di Genova.

Lo sponsor numero uno dell’operazione era Garrone, che con uno dei suoi vezzi più privati, spiegava la passione per quello sproporzionato palcoscenico lirico con l’amore verso una delle sue figlie, che imparava a ballare sulle punte all’Opera di Parigi.

Era rustico ma poi sempre disponibile l’uomo Riccardo Garrone, irruente, improvviso nei suoi gesti, negli slanci e nelle ritirate improvvise, come quando si dimise per la seconda volta a metà mandato dalla presidenza degli Industriali, lasciando gli imprenditori in mano a un manager affidabile e severo, come Stefano Zara, ex dirigente chiave delle Partecipazioni Statali. Era sempre coinvolto nella politica, anche se questa lo aveva respinto, prima sbarrando la strada ai suoi progetti, poi negandogli l’elezione senatoriale.

Si schierava per interposta persona, ma lo faceva con frontalità e decisione, come quando volle che lo stesso Zara, terminato il mandato confindustriale, capeggiasse una lista civica per diventare sindaco, invece di partecipare alle Primarie di centro sinistra che avrebbero lanciato sulla poltrona di sindaco Marta Vincenzi, ex comunista, poi Pds, Ds e Pd, la penultima sindaco di Genova.

Questa fu forse la sua ultima battaglia politica, persa, come spesso gli accadde. Era già il 2007 e da quattro anni Garrone aveva lasciato il timone operativo della Erg ai figli Edoardo, già presidente nazionale dei Giovani Industriali italiani e Alessandro, il terzogenito, l’uomo chiave nella azienda dei successi, solo negli ultimi anni un po’ offuscati dalla grande crisi.

Era un un leone sempre in combattimento  Garrone, liberato dalle responsabilità dirette nella Erg. Aveva le sue visioni forti per ognuno dei settori della vita pubblica e ovviamente in particolare per le organizzazioni imprenditoriali, mettendo in campo i suoi candidati, come quando schierò nel 2005 Vittorio Malacalza per la presidenza, contro il giovane candidato degli industriali portuali Giovanni Calvini.

Malacalza, che sarebbe diventato lo sfidante di Tronchetti Provera nella battaglia attuale di controllo di Pirelli, fu clamorosamente sconfitto e con lui Duccio. Ma Duccio non si stancava di tuonare lo stesso e lo faceva senza limiti e freni, sfidando pubblicamente e ancora recentemente i poteri forti della città, alludendo all’intreccio tra banche, massoneria e perfino chiesa. Erano loro a “bloccare” le sceltre della città, nella politica, ma anche nelle organizzazioni imprenditoriali, Assindustria, ma anche la Camera di Commercio.

Poi era arrivata la Sampdoria con l’inghippo che lo aveva incastrato, anche qua per generosità e poi per passione, a occuparsi di ciò che aveva mai seguito, il calcio, lui che era sportivo solo per passione della caccia, in ogni parte del mondo ci fosse da sparare sulle Ande o sulle Alpi austriache o nelle riserve di casa. Il calcio era da moralizzare, da mettere dentro regole serie imprenditoriali: questa era veramente diventata l’ultima grande “fatica” di un uomo instancabile. Insieme al lancio della “sua” Fondazione Garrone, un motore culturale con aspirazione di grandi dibattiti culturali e nobile sede nei caruggi genovesi e insieme alla presidenza della banca San Giorgio, assunta per rispetto alla memoria del fondatore suo cognato Gian Vittorio Cauvin, un altro degli ultimi grandi genovesi scomparso prematuramente.

Pronto a spendersi anche contro un “bullo” come Antonio Cassano, che lui amò come un figlio e poi scacciò dalla squadra e dalla società malgrado l’ estro geniale nei piedi, dopo quella memorabile lite che vide lo scontro a insulti tra il ragazzaccio di Bari vecchia e l’imprenditore-ex petroliere di Genova. Da qualche mese taceva sulla Samp e sul resto, Duccio Garrone, perchè la malattia lo stava piegando e lui non si era mai piegato, aveva offerto di se stesso sempre quell’ immagine combattente, sempre all’erta, sempre fiera, senza temere mai di esagerare.

Non lo vedevi più passeggiare nel centro della città con il sigaro tra le labbra, la battuta provocatoria pronta, qualche raro cortigiano scodinzolante intorno, i tifosi della Samp che lo adoravano, facendogli assaggiare un aspetto della vita che mai aveva vissuto: la popolarità tuttta positiva.

Con lui se ne va uno degli ultimi leoni di una città sempre più vuota di personaggi, di sfide frontali, di confronti a muso duro, e anche di proposte sulle quali almeno scontrarsi frontalmente. Era un cattolico che aveva indossato il mantello dei Cavalieri del Santo Sepolcro, benedetto da Siri, ma mai conservatore e mai baciapile, anzi.

Detestava Berlusconi, non amava Prodi, era freddo con Monti e non aveva mai avuto contiguità con nessuna parte politica, su Grillo genovese in auge, se fosse stato ancora sulla ribalta in questi ultimi mesi, avrebbe fatto commenti lapidari e feroci. Lui era Garrone e basta.