Una valanga di rumenta vi seppellirà: Genova ko, dalla spazzatura al caso Carige

di Redazione Blitz
Pubblicato il 5 Giugno 2014 - 14:45 OLTRE 6 MESI FA

GENOVA – Quale metafora più calzante. Non è più neppure una metafora la decisione della Provincia di Genova (o meglio del suo ectoplasma commissariale) di chiudere la immane discarica di Scarpino, una montagna di spazzatura che incombe tra il monte sacro della Madonna della Guardia e la periferia popolosa del Ponente Genovese, alle spalle di Sestri Ponente, dove era stata varata la Concordia che sta per arrivare a Genova per essere rottamata.

La discarica scoppia, la montagna di “rumenta”(così la chiamano i genovesi) sta franando e da mesi “filtra” dalle sue spaventose architetture di poltiglia schiacciata il percolato, il liquido veleno della sua tracimazione, che penetra nella terra, la corrompe, inquina i rii, le fonti, e scende a valle e precipita verso i quartieri popolosi. Questa discarica era la spada di Damocle del territorio genovese e ligure, peggio delle discariche-verogna della terra dei fuochi campana, perchè il fuoco brucia, mentre il percolato scorre, allaga e inquina “da sotto”. E quella diventa una terra perduta e in discesa.

Scarpino inghiotte ogni giorno 1340 tonnellate di rifiuti, che arrivano da Genova e da altri tredici comuni liguri. Scarpino ha bisogno di 80 milioni di euro per essere messa in sicurezza. Scarpino doveva essere cancellata da quasi venti anni perchè si sapeva che era la bomba ambientale innescata sulla testa di Genova, altro che il possibile amianto delle rocce scavate per costruire la linea ferroviaria del Terzo Valico, tra Genova e Tortona, altro che la Gronda la Supertangenziale tra autostrade che dovrebbe sconvolgere le colline genovesi con nuovi ponti, viadotti e gallerie.

È la rumenta di Scarpino, che minaccia il territorio genovese, le colline sospese sulla città, quasi a picco, che se sali su alla Guardia, magari per pregare, raccomandarti l’anima a Dio, o ringraziare per Grazia Ricevuta e guardi in giù, la vedi quella discarica immane, con i camion carichi di nuova spazzatura che salgono come formiche verso la pancia della rumenta e la scalano e poi scendono e risalgono a scaricare ancora. Lunghe teorie di autocarri in arrivo da ogni angolo della Riviera.

L’ordinanza della Provincia, che non esisterebbe più e invece esiste eccome, ha bloccato quella fila di camion, precipitando nel caos non solo Genova, ma tutti i clienti di quella “montagna” artificiale, che è l’altra faccia del nostro consumismo, calcolata scientificamente in 582 chili per abitante prodotti in un anno di rifiuti in Liguria. E poco importa che dopo il crac della sospensione sia stata concessa una tregua di una settimana per trovare una soluzione che sblocchi la discarica.

Non c’è soluzione nelle altre discariche liguri e genovesi che sono stracolme e di piccole dimensioni e collocate in quel delirio del territorio locale, stretto tra il mare, la costa, i porti e le colline o montagne scoscese dove i tecnici della Alta Velocità sono impazziti a trovare i siti per depositare lo smarino, cioè lo scavo delle gallerie per il Terzo Valico, che sono milioni di metri cubi di terra, terriccio, minerali, magari anche pericolosi. Una discarica alla Volpara, zona perduta nella valle del torrente Bisagno, quello che ogni tanto si incazza e esonda e tracima e provoca le alluvioni ben note alla cronaca genovese, zona dove le vecchie generazioni bruciavano i rifiuti, in una coscienza ecologica ben diversa da quella di oggi. Un’altra discarica nell’entroterra di Vado, alle spalle del porto savonese.

Insomma un traffico di camion e autocarri pieni di rumenta, su e giù per la Riviera e quando se non oggi, inizio di una estate nella quale potrebbero accendersi le luci di una ripresa timida del turismo verso la costa. Turisti e rumenta, camion e traffico, code puzzolenti: ecco il via vai che l’esplosione della discarica potrebbe innescare.

La metafora simbolica della grande discarica vietata è anche quella della incapacità decisionale genovese e ligure, che contemplava questa montagna puzzolente, dove i fotoreporter si divertivano a salire per fotografare i maiali che pascolavano, grufolando, sulla spazzatura in uno scenario quasi apocalittico della società dei consumi. Solo un sindaco, Giuseppe Pericu, avvocato, amministrativista, regnante tra il 1997 e il 2007, aveva cercato di affrontare quell’emergenza incombente, decidendo la costruzione di un termovalorizzatore, che brucia e produce energia, ma anche cenere. Rivolta ambientalista che rallenta le pratiche dell’impianto già finanziato. Troppo tempo passa nelle lotte con gli ambientalisti e anche quella tipologia di impianto passa di moda.

Il sindaco che viene dopo, Marta Vincenzi, dello stesso partito di Pericu, ma in clima di discontinuità, ha altre idee. Che non si realizzano e la montagna resta lassù e cresce, cresce, e il percolato cola fino a diventare una cascata nell’ultimo inverno, quando le bombe d’acqua spianano la rumenta.

Il terzo sindaco di questa epocale emergenza, Marco Doria, erede di cotanta dinastia di ammiragli e dogi non può fare nulla. Anche il gassificatore che la Vincenzi aveva in testa di far costruire non è più una soluzione e la raccolta differenziata che nei paesi civili riduce il problema è una chimera a Genova, dove la sua percentuale non sale oltre il 30 per cento. Doria può solo arrendersi e arrovellarsi se concedere altre proroghe d’emergenza, permettendo che almeno la metà della rumenta prodotta a Genova e negli altri Comuni salga verso questo “Mont Chauve”, Monte Calvo della apocalisse ligure e non resti nei cassonetti seminati su e giù per i saliscendi di Genova.

La metafora di Scarpino è tanto evidente, non solo per le ragioni di emergenza che racchiude una montagna di spazzatura a picco sulla città, ma perché rischia di cadere nel momento in cui Genova, la ex Superba sembra sommersa da un altro tipo di rumenta, quella dei grandi scandali che la stanno inquinando, ben più del percolato, perfido liquame da spazzatura tritata.

Ogni giorno oramai da settimane lo scandalo della cassaforte dei genovesi, la banca Carige e del suo ex presidente e amministratore delegato e doge assoluto della città, Giovanni Berneschi, arrestato dopo essere stato posto agli arresti domiciliari per reati gravissimi di truffa aggravata e di associazione per delinquere, commessi con un comitato di affari che usava la sua banca e le socieetà assicurative ad essa collegate per rapinare la cassaforte, cola a cascata su una città sconcertata.

Qui non è, appunto, percolato, ma rivelazioni di intercettazioni quasi sconcertanti nel loro contenuto, che mostrano un intreccio quasi diabolico, capace di capovolgere la figura di Berneschi: da Doge onnipotente ed anche onnisciente, self made man votato al bene della sua banca, a diavolo capace di architettare manovre proibite con la sua “cricca” di immobiliaristi, commercialisti, assicuratori, affaristi, per sfilare dalla cassaforte, decine di milioni di euro da sistemare nei forzieri svizzeri, a diavolo del malaffare, figura capovolta nella sua immagine di re assoluto. Dopo quindici giorni di questo bombardamento, quando l’ex doge è in isolamento nel carcere di Pontedecimo, la tesi più favorevole a Berneschi, che i suoi nemici chiamavano con una punta di acredine, allora solo per il timore della sua devastante potenza, “Il Bernesco”, è che accumulasse capitali per aumentare le sue quote azionarie all’interno della banca, salendo dal due per cento a una quota più alta, insieme ai pool dei suoi alleati “pattisti”, per compiere manovre sulla proprietà della banca, già travolta dallo scandalo e dai rapporti durissimi della Banca d’Italia.

Se Scarpino è una montagna di rumenta in caduta sulla città con i mille rivoli del liquame velenosi, la Carige è una frana che schianta l’economia ligure in un modo che nessuno poteva immaginare.

La Fondazione Carige, che era azionista di maggioranza della banca e che sta mettendo sul mercato al ribasso le quote per scendere sotto l’attuale 29 per cento (la manovre precedente l’ha fatta calare dal 43 a quel 29), vale attualmente solo 90 milioni di euro, in conseguenza del patatrac del titolo, calato in poco più di un anno da un valore di 3,04 euro a 0,40. Una debacle assoluta di fronte alla quale i nuovi vertici della Fondazione, presieduta ora dall’avvocato Paolo Momigliano, stanno cercando di trovare soluzioni possibili di acquirenti.

Ma sia l’imprenditoria locale, a incominciare dal gruppo Malacalza, sia il sistema delle Fondazioni, sia il mondo politico locale non riescono a cavare un ragno dal buco.
Sul fronte della Banca, che ora è nelle mani del presidente-principe, Cesare Caltelbarco Albani e dell’amministratore delegato Giampiero Montani, il tentativo di salvataggio è in corso, ma con la spada di Damocle delle inchieste che trafiggono il “Bernesco”. Possibile che avesse deciso tutto da solo e i vecchi cda cosa ci stavano a fare?

Carige è esposta in grandi e anche sospette operazioni di “crediti facili”, atttribuiti all’azione della vecchia direzione, come per esempio quella di avere finaanziato con 250 milioni il parco tecnologico di Erzelli, dove si dovrebbe insediare l’industria high tech del futuro, operazione che non si realizza mai per le indecisioni dell’Università di Genova e per la crisi globale, quelle di avere coperto i debiti del Genoa per 150 milioni, quelle di avere salvato armatori in gravi difficoltà, quelle di avere finanziato un costruttore molto noto a Genova, Renzo Fossati, praticamente in bancarotta, quella di avere dato soldi a una specie di boss del Ponente ligure Nucera…

Una litania, un florilegio di emergenze che potrebbero crollare su tutto, travolgendo la fragile economia genovese e ligure, appesa, oggi come oggi, solo al ritorno a casa del rottame della Concordia Carnival, la maxinave da demolire con lavoro per due anni e per qualche migliaio di operatori.

Insomma, rottami, rumenta, liquame, frane economiche, scandali e sopratutto il fango di quelle rivelazioni che, quasi come una ciliegina sulla torta, hanno riportato proprio nelle ultime ore le frasi del figlio di Berneschi, Alberto, dirigente di Carige Vita, la società di assicurazione che ha trascinato la banca nel baratro, intercettate in un colloquio in carcere dove si era recato a trovare la moglie Francesca Amisano, nuora del “Bernesco”, accusata e detenuta con la cricca: “Quello rubava come un pazzo, da sempre, altro che due miloni…”

“Quello” è suo padre, l’ex Doge, e la cimice, come svelano “Il Secolo XIX” e “Repubblica” era piazzata nella sala colloqui del carcere dove moglie e marito si parlavano per la prima volta. Altro che la rumenta di Scarpino.