Vendesi Banca Carige: il dramma a Genova dove “Paganini” non suona più il suo violino

di Franco Manzitti
Pubblicato il 27 Luglio 2018 - 07:00 OLTRE 6 MESI FA
Filiale Banca Carige

Una filiale del gruppo Banca Carige (foto Ansa)

GENOVA – Non ci sono cartelli appesi fuori dal grattacielo di 14 piani che si erge dal dedalo dei “caruggi” genovesi e che è la svettante sede della Carige [App di Blitzquotidiano, gratis, clicca qui,- Ladyblitz clicca qui –Cronaca Oggi, App on Google Play].

Non c’è scritto “vendesi”, come potrebbe essere, se si seguono le tumultuose vicende di questa storica banca, la prima della storia finanziaria italiana, nata sul Monte di Pietà, fondato a Genova nel 1426 per opera di otto mercanti autorizzanti dai saggi nella stanza di san Giorgio a salvare le traballanti finanze della Repubblica, l’ultima oggi ad essere spazzata dalla tempesta che flagella gli istituti di credito italiani, a partire dal Monte dei Paschi e andando avanti tra banche venete e toscane.

Non c’è scritto “vendesi”, ma è come se lo fosse in un clima da resa dei conti che regna proprio al quattordicesimo piano di quel grattacielo, che era il simbolo della granitica solidità genovese, della sicurezza del risparmio di questo popolo, che le banche le ha inventate, come il tasso di sconto e che nella sua storia imprestava moneta a Carlo V e ai sovrani di mezza Europa.

Altro che simbolo di credito e buona finanza, oggi Carige vive una crisi ininterrotta da almeno sette anni, i suoi vertici aziendali, il suo azionariato, grandi e piccoli risparmiatori, hanno visto il titolo in borsa polverizzarsi con una velocità paurosa, hanno visto cambiare presidenti, vicepresidenti e consigli di amministrazione, come in un film accelerato di Ridolini. Come in una fiction, per esempio la popolarissima “Billions” americana.

Il primo presidente a cadere, Giovanni Berneschi, un self made man diventato una specie di doge genovese, è stato anche condannato nel frattempo da otto anni e sei mesi per truffa e associazione a delinquere. Il suo successore, il principe Cesare Castelbarco Albani, si è beccato una denuncia dall’azionista di maggioranza subentrato nelle piroette della proprietà Carige, Vittorio Malacalza, imprenditore-finanziere e deus ex machina del nuovo corso. Il terzo presidente, Gianni Tesauro, niente meno che ex presidente della Corte Costituzionale, si è dimesso per polemica con l’ultimo amministratore delegato, Paolo Fiorentino.

Fiorentino, ex Unicredit, è ancora in sella, ma non si sa per quanto in una ridda di dimissioni che hanno coinvolto figure di spicco del Cda e in primis proprio Malacalza, il quasi ottantenne oggi presidente facente funzione, con un passato di vivacissimo uomo d’affari capace di sfidare e sconfiggere Marco Tronchetti Provera nella contesa sui titoli Camfin-Pirelli e di costruirsi una fortuna con le sue imprese di commercio dell’acciaio, di superconduzione, prima di accettare la sfida della banca storica e di salvarla inizialmente dal patatrac.

Oggi ci vuole una bussola per capire cosa sta succedendo intorno a questo grattacielo, dove pulsava il cuore genovese, considerato che questa è sempre stata la città delle palanche e che il suo battito si poteva misurare con il tintinnio dei capitali, della moneta corrente, dagli affari misurati sempre dai vertici Carige, incrollabile, imperitura, fedele sotto l’occhio vigile degli antenati di una quarantina di generazioni.

Tra dimissioni, sostituzioni di vertici, cadute e denunce, il riparmio di generazioni intere di cittadini che vedevano in Carige la mamma protettrice dei soldi, delle pensioni, delle propire liquidazioni, il caso Carige è diventato la croce di Genova, più di quella di san Giorgio che sventola sulle bandiere della Repubblica e che il sindaco Marco Bucci vuole capitalizzare, facendone pagare l’uso concesso nei secoli alla Corona inglese (come Bliutzquotidiano ha raccontato) .

La Bce ha mandato avvertimenti pesanti fino a ieri, invitando la banca a aumentare ancora il capitale e a operare per una funzione che la metta al riparo e a riannodare i suoi vertici in modo stabile, non commissariandola solo perchè il 3 agosto è previsto un consiglio di amministrazione da Ok Corral con il rinnovo totale dei vertici.

E questo è avvenuto nei giorno in cui la Procura di Genova aveva mandato i finanzieri a sequestrare file e documenti in quel maledetto grattacielo, aprendo un’inchiesta, sotto l’ipotesi di “abuso di mercato”, un ipotetico reato commesso dagli amministratori nella loro sfida interna, che ha palesato dopo mesi di tensioni sotterraneei proprio lo scontro tra Malacanza, vice presidente diventato facente funzione e Fiorentino, l’amministratore delegato, per altro scelto da lui.

Sfida sanguinosa nella quale entrano anche intercettazioni che proverebbero un rapporto incestuoso tra lo stesso Fiorentino e Parnasi, il costruttore dello stadio di Roma per una consulenza da affidare al genovse Luca Lanzalone, altro personaggio dello scandalo romano.

Essendo lo stesso Malacalza l’azionista al 20 pr cento (autorizzato da Bce a salire al 28 per cento) colui che ha già silurato i tre precenti ad, Giampiero Montani, ex Banca Popolare, Guido Bastianini da lui scelti o almeno approvati dopo la tempesta della vecchia gestione, la partita appare molto più grande di quella che si può giocare intorno alle cariche di vertice.

Chi venderà la banca originaria della storia del credito italiano? La cordata di Vittorio Malacalza, che ci ha investito 350 milioni tra l’ingresso e gli aumenti di capitale o il partito di Fiorentino che sta cercando di tirare fuori Carige dall’abisso della sua gestione passata, ma con mosse non più condivise dal patron?

Il quadro dell’azionariato, a parte il predominante Malacalza, è molto variegato. Gabriele Volpi, ultrasettantenne tycoon di origine recchesi, che ha fatto fortuna con la logistica in Nigeria, che è proprietario anche della Pro Recco, squadra superstar di pallanuoto e che aveva in tasca anche lo Spezia Calcio, è in lizza con il 9 per cento. Il suo uomo di fiducia è niente meno che Giampiero Fiorani, ex Banco popolare di Lodi, personaggio molto discusso e, secondo alcuni, regista occulto della operazione anti Malacalza. Poi c’è la Sga, bad bank, controllata dal Tesoro e gestita da Marina Natale, che ha il 5 per cento. Sta con Fiorentino, vista la comune matrice Unicredit?

Con un 8 per cento galleggia in mezzo alla contesa Raffaele Mincione, il finanziere italo britannico molto ambizioso, dichiaratosi in grado di salire al 19 per cento. E’ il più aggressivo nella costellazione degli azionisti, avendo richiesto la revoca del consiglio intero per schierarsi a fianco di Fiorentino.

C’è anche con il suo 3,3 per cento Aldo Spinelli, vivacissimo imprenditore del trasporto, ex presidente del Genoa, figura influente a Genova, che ha oscillato politicamente tra l’ex presidente regionale del Pd, Claudio Burlando e ora fa parte della formazione di sostenitori del suo successore di centro destra a trazione leghista, Giovanni Toti, nella società Change.

Su questo guazzabuglio e su queste montagne russe di dimissioni e defenestramenti sono ovviamente puntati tutti i fari possibili, non solo quelli della Bce, della Consob, della Banca d’Italia, che sta un passo indietro, dopo avere innescato il terremoto iniziale, con le sue martellanti indagini costate la testa a Berneschi, al suo gruppo e alla sua regia che aveva portato Carige ad avere nella Fondazione, salita al 43,3 per cento, il suo padrone, rappresentato da Flavio Repetto, presidente e noto imprenditore alimentare, titolare di marchi come Novi, Dufour, Baratti eccetera.

Ora Repetto è lontano e la Fondazione, presieduta da un avvocato genovese, Paolo Momigliano, è scesa vertiginosamente al 0,05 per cento. Se Malacalza ha dirottato oltre 300 milioni nell’operazione Carige, oggi il valore patrimoniale di quell’investimento non è più di 100 milioni.

L’ultima tempesta si è scatenata in dicembre, dopo l’ennesino aumento di capitale, davanti alla decisione di vendere la quota nell’Autostrada dei Fiori, circa 88 milioni di euro a valore di libro con con un rendimento tra i 9 e i 10 milioni. Malacalza non ha gradito la mossa di Fiorentino e il rapporto tra il vicepresidente e il ceo si è rotto definitivamente.

In consiglio sono entrati grandi saggi della città, come il professor Beppe Pericu, ex sindaco per dieci anni di Genova, professore di Diritto Amministrativo, anche lui oggi con il piede sul portone di uscita.

Tra il 3 agosto e l’assemblea di settembre il destino di Carige si deciderà nello scontro tra i due partiti. Un peccato, perchè questa banca, nata dalle mosse di quegli otto mercati, autorizzati nel quindicesimo secolo a muoversi dai saggi riuniti nella casa di San Giorgio a due passi dalla cella nella quale Marco Polo, prigioniero dei genovesi, scrisse il suo “Milione”, era l’unica, nel devastato panorama creditizio italiano a salvarsi da sola, vendendo asset, trovando soluzioni per la montagna di crediti deteriorati che la impiombavano come una vecchia galea prossima a colare al picco.

Chi se la comprerà alle condizioni di Malacalza, che non vuole mollare una soluzione fedele al territorio, (dopo essere stato decisamente contrario alla cessione) al contatto con la realtà genovese e ligure o a quelle di Fiorentino e dei suoi partner, alcuni dei quali, come Fiorani, un po’ inquietanti per il loro passato recente?

I possibili clienti non sono molti e sono tutti sotto i fari di Piazza Affari.

La più accreditata a “entrare” potrebbe essere Banco Bpm. Si allontana Bper, come Ubi, troppo impegnata su Monte dei Paschi.

Certo quel grattacielo di 14 piani sembra vibrare sotto le ondate della tempesta che lo scuote oramai da anni. In novembre sembrò addirittura crollare in un venerdì nero, il classico blak fryday, nel quale i clienti correntisti facevano la fila per tirare via le loro palanche. Fiorentino resistette, stringendo i denti e sembrava che Carige uscisse dall’occhio del tifone. Non era così.

Ora il count down è ripartito. Intanto la Corte d’Appello ha addirittura aumentato la pena nel processo bis a Giovanni Berneschi, il presidente-padrone all’origine dello scatafascio Carige, condannato con la sua “banda” a otto anni e sei mesi, avendo spolpato le società assicurative della banca mentre gonfiava i prezzi di immobili acquistati e poi venduti all’estero a prezzi fortemente ribassati, con un vantaggio calcolato nel processo a circa 22 milioni di euro.

Berneschi, padre-padrone della banca, entrato tra gli sportelli a 20 anni come semplice ragioniere e uscito come presidente e Doge di Genova, era soprannominato “Paganini” per la sua capigliatura scomposta, per i suo gesticolare spettaccoloso, come con un violino in mano e per sue invenzioni creative nel mondo della Finanza, che fecero diventare la banca sesta nella classifica della patrimonializzazione.

Oggi con questo fardello sulla schiena “Paganini” esce raramente di casa per non essere insultato dai passanti, ma mantiene la sua verve, annuncia che la verità verrà a galla e promette capitoli clamorosi della sua storia che è diventata la storia di una banca e in parte di una città in decadenza. La città delle palanche, diventata la città della guerra per un pugno di palanche, rimaste nei forzieri di quel grattacielo che sbuca dai “caruggi”.