VIDEO YOUTUBE- De André cantava via del Campo ora i cinesi..

di Franco Manzitti
Pubblicato il 6 Novembre 2015 - 07:11 OLTRE 6 MESI FA
VIDEO YOUTUBE- De André cantava via del Campo ora i cinesi..

Genova. Via del Campo. In fondo la Porta dei Vacca, per mille anni confine di Genova verso il mare

GENOVA – Qual è la Genova giusta per noi che la guardiamo dalla sua pancia di caruggi e porto, ma anche dalle sue paradisiache alture, dai caruggi sprofondati nel degrado e dagli ultimi piani dei nuovi grattacieli di san Benigno, pieni di colletti bianchi dello shipping di Msc e Costa Crociere Carnival nel nuovo sky line della Superba?

Hai ancora nella memoria le note musicali e i versi di Fabrizio De André, Faber, quando incominci il tuo viaggio in via del Campo e ricordi tra nostalgia e attualità: “Via del Campo c’è una puttana, occhi grandi, color di foglia, se di amarla ti vien la voglia, basta prenderla per mano…..”

Via del Campo non è più solo quella visione della ragazza in attesa con quei colori indefiniti che De André ha consegnato alla iconografia zenesise immortale e seducente. Le ragazze stanno un po’ indietro, non hanno occhi color di foglia, ma neri come la notte o come il Continente da cui arrivano. Meglio, “i” Continenti al plurale, perché oggi la prostituzione che resiste nei caruggi, dove quasi niente più resiste come prima, salvo i miti alla De André, ha connotati africani, ma anche sudamericani, medioorientali, per cui “gli occhi color di foglia” della canzone non li puoi proprio trovare. Trovi fisici di tante altre razze, look aggressivi, tacchi 13 e 14, colori folli, minigonne micro, richiami e richieste ai passanti-clienti quasi perentori davanti alle piccole porte dei cunicoli d’amore mercenario, ai magazzini dei caruggi ancora più stretti della maestosa via Del Campo.

Potrebbe sembrare che non tanto sia cambiato, a parte l’offerta variegata e “globale” della prostituzione intercontinentale e gli odori e i rumori della strada-simbolo. Sì, c’è ancora quella lapide sul muro di piazza Vacchero, angolo via del Campo, dove si perpetua la condanna a morte e decapitazione del nobile Giulio Cesare Vacheri, “perditissimis hominis, infamis memoria qui contro Republicam cospiravit, obtruncato capite, pubblicatis Bonis, expulsiis filiis”, uno sciagurato nemico di qualche doge del 1500, giustiziato, espropriato, esiliata la famiglia.

E sul muro di fianco, manco non ci fossimo già lasciati rapire dai versi di Faber, ecco scritta a caratteri cubitali una sua frase meno amorosa, molto “politica” che un anonimo writer ha vergato: “Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto non rubare quando si ha fame….” firmato Fabrizio De Andrè.

No, quella lapide e quella frase cinquecento anni dopo, nella strada consacrata al canzoniere numero uno di questi caruggi semi perduti nella pancia genovese, non sono le pietre angolari tra la storia e la possibile ribellione di questo pezzo di Genova, il pugno duro della Repubblica nei suoi secoli d’oro e i fremiti di una possibile rivoluzione secoli dopo.

Oggi i caruggi genovesi, avanti e indietro per i 113 ettari del centro storico erroneamente indicato come il più vasto d’Europa (quello di Roma misura 1140 ettari, quello di Napoli 1500 e quello di Palermo 185, di che stiamo, quindi, a parlare?) vivono una ben altra era.

Vivono il tempo dell’abbandono e della fuga, dopo le grandi illusioni del recupero partito tra gli anni Ottanta e i Novanta in cui Renzo Piano disegnò il porto antico che era ed è il suo proscenio sulle storiche banchine.

Avanti e indietro per questo quartiere, dove vivevano fino a qualche tempo fa 23 mila abitanti, oggi misuri il progressivo abbandono perfino degli immigrati, degli stranieri che a ondate avevano incominciato a popolarlo dalla fine anni Ottanta, usandolo come il ventre accogliente e sicuro per i regolari, ma anche per i sans papier, i vu cumprà degli anni seguenti, rifugiati nei caruggi di notte e poi via sui treni e le corriere verso le Riviere, verso Milano e Torino con i borsoni pieni di merce da vendere….E poi, indietro e avanti, nella notte complice per nascondere la merce e se stessi nei magazzini affittati dagli speculatori senza scrupoli…..

Le statistiche dicono che in questo centro storico nel 1998 la percentuale genovese di immigrazione era del 27 per cento, poi scesa nel 2008 al 17, 2 e nel 2014, cioè ieri, scesa al 12, 2. Dimezzata.

Se ne vanno anche gli immigrati e tu fai fatica a misurarlo se viaggi, appunto avanti e indietro per i caruggi da via del Campo verso la Commenda di Prè, verso la Stazione ferroviaria di Principe, che è un po’ il grande bastione- diga del fronte orientale per questo centro storico. Scopri decine e decine di negozi cinesi, uno dopo l’altro, un call center dopo l’altro, uno Shangai center dopo l’altro, come una vera muraglia cinese nei caruggi, una lunga linea gialla che scorre dove una volta impazzava il dominio napoletano di via Pré, dove regnavano i cosidetti “vice sindaci” della elegante e sopraffina mala partenopeo zeneise, boss dell’epoca del contrabbando di sigarette e di cioccolato svizzero, venduto sulle bancarelle di un mercatino storico in piazza sant’Elena, dove si smerciavano anche dadi da brodo, cioccolato appunto, i primi blue jeans montagne di preservativi e ovviamente sigarette, stecche di Lucky Strike e di Astor, che le Marlboro e le Muratti sarebbero venute ben dopo.

Ma la muraglia cinese, quei cestoni riempiti di tute, scarpe, piumini di chissà quale finta ocra, quei negozi tutti uguali con una commessa, due, silenziose come statue, neppure sorridenti, fa parte del fenomeno dell’immigrazione in ritirata?

Te lo chiedi osservando il tipo di convivenza che regna tra le nuove razze in estinzione del centro storico, avanti e indietro, sulla border line che separa l’ombelico di via del Campo e gli altri vicoli- asse di questa prateria. Una volta potevi disegnare le differenze, a seconda delle razze e dei business messi in campo: i tunisini e i marocchini che controllavano il mercato della droga, i senegalesi prevalentemente vu cumprà, con il loro passo da cavalli mai stanchi sotto il peso dei sacchi di merce taroccata, gli altri, i ghanesi, i pakistani e gli indiani sparsi a cercare affari.

Nei bar, nei ristori, sotto i porticati della antica Ripa, in faccia alle grandi opere di Renzo Piano, il Bigo, la Sfera, la grande tenda del teatro, misuri un mix che parla prevalentemente spagnolo, equadoriani in grande maggioranza, poi peruviani, boliviani, colombiani e che convive con gli africani, una volta solo del Nord, oggi anche sudanesi, del Mali, nigeriani, quelli con la faccia più cattiva.

Affollano questi ritrovi, bevono fumano a crocchi, mescolano le loro lingue, ma sembrano un esercito in smobilitazione, aspettano un lavoro, un contatto, un caporale che sbuchi da qualche parte e li assoldi, ma il senso è quello di un’attesa inutile, che si incattivisce.

Quando cala la sera e le ombre si allungano, i ritrovi si svuotano, ogni tribù si ritira nei suoi antri e un silenzio un po’ minaccioso scende su questo pezzo della città e nelle sue periferie meno abitate dai residenti genovesi.

Sono proprio come praterie o foreste nelle quali è difficile avventurarsi dopo una certa ora, come se calasse il coprifuoco. Il mercatino italiano, che dalla storica piazzetta di Pré si è spostato in quattro chioschi di fronte al Museo del Mare, dove vendono abbigliamento paramilitare, camicie americane Brook Brothers, jeans stracciati e strastinti e dove se vuoi ti aggiustano anche i capi comprati, grazie a botteghe di sarti indiani o cingalesi per tre euro a rifinitura, cala le sue griglie. Chiude e blinda le sue botteghe.

Chiudono anche i cinesi e, come è nella loro natura, spariscono nel nulla, come se evaporassero. Non li trovi nei bar, nei kebab, intorno ai venditori abusivi che stendono la merce anche al buio, sperando di catturare gli ultimi turisti dell’Acquario o gli studenti che escono dalla Facoltà di Economia e commercio, al di là della Ripa.

Avanti e indietro per i caruggi non ti incanti a leggere le pagine prestigiose di “Le Monde”, che dedica un grande reportage a Genova e la celebra come una “dea del mare”, proprio per questo affaccio sullle banchine, sui moli, questa città antica, ricca di botteghe storiche e di palazzi nobili, i famosi Rolli, patrimonio dell’Umanità, che si possono visitare raramente, che sono elencati in registri dagli anni del grande splendore genovese e che sopratutto guarniscono la via Garibaldi, la via Aurea, confine ingannevole dei caruggi, dove c’è il Comune e spiccano i Musei Rosso e Bianco, edifici donati dalla famosa Duchessa di Galliera alla città alla fine del 1800.

Le botteghe storiche dove – scrive Le Monde – si fabbricano cravatte speciali, dove si comprano spezie rare, si candiscono dolci prelibati e si fa un cioccolato sopraffino e i Rolli sono come isole lontane di questo arcipelago procelloso dei caruggi nel terzo Millenio.

Incocci le botteghe e i palazzi, lungo percorsi da turisti in fila con la guida entusiasta che li conduce tra Vico della Neve e vicolo dell’Amor Prefetto, tra i Quattro Canti di san Francesco, come a un elegante safari. Non cacci animali, ma reliquie di un passato incancellabile.

Avanti e indietro da qui la gente se ne va a stare altrove. In via della Maddalena, trenta metri sotto la strada Aurea, via Garibaldi, su duecento metri di lunghezza conti novanta saracinesche chiuse per sempre. Da via san Luca se ne è andata la libreria più “in” della città fino a qualche anno fa, ”Asso libro”. E ha chiuso uno dei negozi di abbigliamento più noti , “Mauri” e ora indovinate chi ha preso il suo posto? Un maxi negozio cinese-pakistano che vende una merce indistinta e globale.

Nel centro storico ci sono 25 chiese di una bellezza rara e di differenti stili. Spicca quella di san Luca, gestita dalla fondazione Spinola, storica famiglia della grandeur genovese, che la ha restaurata con grande attenzione e generosità. E’ un gioiello, dove la messa si celebra solo alle 8,30 di mattina e ancora grazie che resti aperta, perchè il vuoto nel clero, la desertificazione delle parrocchie e dei preti e dei frati nei caruggi è come una grande macchia che si estende.

Eppure i preti, le chiese sono diventate nei caruggi come l’unico avamposto di pronto soccorso sociale, il salvagente dove trovare abiti, un pasto, un sacchetto con dentro un panino, una scatola di carne, una mela. Dove si va quando si è alla disperazione, alla fame e senza tetto, se non in chiesa a chiedere e ci sono preti dei caruggi assurti a santi, come quel don Luigi che accoglieva a san Siro, la ex cattedrale di Genova, una chiesa di rara bellezza e magnificenza, diventata una specie di capolinea, la cui sacrestia era il refugium peccatorum per sopravvivere, ma anche per tentare disperate rapine o atti di violenza?

A oltre ottanta anni don Luigi si è arreso e ora prega in un’altra chiesa dell’arcipelago, a san Filippo.

Avanti e indietro per i caruggi andava il prete di strada per eccellenza, don Andrea Gallo, al quale gli abitanti rifugiati hanno da soli dedicato una piazza proprio dietro via Del Campo, in attesa che il Comune lo faccia ufficialmente. E avanti e indietro andava anche don Antonio Balletto, un altro prete di ingegno e di frontiera, il primo a studiare l’Islam quando i caruggi erano ancora bianchi e, tutt’al più napoletani, e il cui piccolo ufficio, soffocato dai libri, in un’altra strada ombelicale, vico San Matteo, dove ci si tuffa nei vicoli dalla centrale piazza simbolo della città, piazza Raffaele De Ferrari, era letteralmente assaltato dai desperados che chiedevano anche solo un euro, una moneta per mangiare, per sperare.

Cosa si può ancora salvare qui, nei caruggi, dopo i grandi errori del passato, il suo abbandono che costò tra il 1961 e il 1972 la perdita di 12 mila abitanti, segno di una politica abitativa del Comune che puntava ai quartieri periferici, alla città policentrica, alle periferie che si sarebbero trasformare in ghetti, in detonatori del disagio sociale ben di più dei caruggi? I caruggi dovevano essere arditamente recuperati, impreziositi, diventare l’ombelico culturale, architettonico, la prova di una nuova urbanizzzione che in mezza Italia hanno realizzato, ma qui no. Troppo complicato, troppo difficile.

Che si può fare allora oggi, trenta anni dopo, di questo sprofondo affascinante di luci e ombre, di pietre preziose e di rumenta, di questo agglomerato impenetrabile di 2305 case dove a lungo si pensò di affrontare e risolvere il problema immane del suo recupero, “diradando”, cioè distruggendo una parte di quelle case per favorire gli ingressi nella area, facendo respirare l’urbanistica con i vezzi e i funambolismi degli architetti new age?

Sarebbe stato un errore imperdonabile, una soluzione drastica, sulla quale si sono attorcigliati, appunto il fior fiore degli architetti e dei pubblici amministratori, in un delirio di convegni, dibattiti, progetti: avrebbe aperto squarci, buchi definitivi, emesso sentenze senza appello come, tra il 1960 e il 1980, la distruzione del quartiere di via Madre di Dio e la sua sostituzione con una zona che oggi è formata da torri anonime e orrende, come una diga di cemento rosaceo nel cuore della città, al cui centro ci sono giardini tanto anonimi e senza anima da essere definiti “di plastica”. Lì hanno diradato, distruggendola, perfino la casa di Nicolò Paganini, il grande violinista che resta una delle glorie eterne di Genova nel mondo.

Leggi i dati statistici e scopri che in pochi anni il numero delle famiglie abitanti del centro storico è calato di molti punti percentuali e che le botteghe non storiche, i commercianti e gli artigiani che ci avevano scommesso, resistono a stento e spesso si arrendono.

Avanti e indietro, avanza solo la muraglia cinese che conquista palmi su palmi di territorio. Non sarà un caso o una vendetta o una coincidenza che Marco Polo, il veneziano nemico, fosse catturato dai genovesi e rinchiuso in una cella proprio al bordo del centro storico, che allora era il centro della Repubblica marinara. E li scrivesse “Il Milione”, il primo grande racconto dei cinesi?