Elezioni europee: la crisi del Pd sullo sfondo della crisi dei partiti socialisti europei

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 8 Giugno 2009 - 18:53| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

La sinistra è stata terremotata in tutt’Europa. A parte qualche esigua compagine, essa è sparita dalla geografia politica del Vecchio Continente. La cosiddetta sinistra radicale o antagonista, naturalmente. Quella più moderata, riformista, comunque, non è che stia molto meglio. Basta considerare la batosta subita da José Rodriguez Zapatero, da Martine Aubry, da Gordon Brown, da Franz Muntefering per avere chiara la dimensione di una disfatta dalle proporzioni impreviste ed imprevedibili.

Che la “gauche plurielle”, la izquierda del Psoe, il new labour, i socialdemocratici tedeschi, che soltanto qualche tempo fa aspiravano a dare il “tono” alla politica europea, non godessero di buona salute era noto. Ma che la loro caduta seguisse quella dei compagni separati, in maniera tanto rovinosa, nessun politologo l’aveva ipotizzato. La sinistra “legale”, insomma, ha pagato l’incapacità di fronteggiare la crisi economica e finanziaria, mentre quella “rivoluzionaria” è stata vittima di un anacronistico eccesso di ideologismo che l’ha portata a frammentarsi, in Italia come altrove. Un suicidio collettivo, al quale si sono sottratti il Pasok greco, i socialisti danesi e svedesi più per incapacità degli avversari moderati che per loro bravura, mentre Daniel Cohn-Bendit, prevedendo la catastrofe, s’è inventato in Francia un partito ecologista intelligente e spregiudicato che ha sottratto voti ai socialisti.

Insomma, se c’è un dato davvero rilevante nelle elezioni europee è la disfatta del centrosinistra connessa con l’altissima astensione a cui, chi l’avrebbe detto, ha messo una pezza l’Italia dimostrando un maggior senso di civismo politico rispetto ad altri Paesi che generalmente vengono additati come esempi da seguire: il 43% dei votanti su circa quattrocentomilioni di aventi diritto non è esaltante e le forze di sinistra che hanno dominato nell’ultimo decennio non sono state capaci di infondere quel tanto di europeismo all’elettorato in grado di creare i presupposti per un’integrazione non retorica, ma reale.

L’epidemia anti-socialista s’è diffusa con la rapidità di un contagio: il virus “isolato” rivela la disaffezione da parte dei cittadini europei rispetto ad una costruzione politica continentale senz’anima, burocratica, lontana dai loro problemi a cui la sinistra non ha saputo dare risposte adeguate.

In alcuni casi, il governo laburista e quello spagnolo hanno dimostrato di essere più liberisti della Thatcher e di Reagan, e, in tempi di recessione, la circostanza non poteva essere apprezzata dagli elettori di riferimento. Ma anche sulle politiche dell’immigrazione e dell’ordine pubblico la debolezza dei socialisti è stata sconcertante così come sconcertante è apparso l’approccio alle tematiche climatiche ed ai problemi economici ad esse connessi. Cohn-Bendit ha avuto successo perché è riuscito a guardare più avanti dei suoi ex-compagni ed ha provato a dare qualche risposta agli interrogativi della “decrescita”.

Tutto questo, naturalmente, e con evidenza, è talmente estraneo al Partito democratico al punto che non vale neppure la pena parlarne. Franceschini, il giovane ferrarese che mai avrebbe immaginato di uscire da una sacrestia per infilarsi nelle rovine di una cellula post-comunista, ha creduto di aver vita facile per essersi trovato scodellato il Noemigate da cavalcare a fini elettorali. Poi, a catena, tutto quel che ne seguito è stato per lui un regalo insperato. E l’Eldorado gli è sembrato a portata di mano poiché non ha considerato che il nostro Paese per fortuna è immune da certi pruriti utilizzati a fini politici. La conclusione la sappiamo: ha perduto sette punti percentuali, ma non gli manca lo spirito per esultare a fronte dei due punti che ha perduto Berlusconi, il quale ha tuttavia allungato di ben nove misure la distanza dal Pd. Chi si contenta gode. E Franceschini è di bocca buona, come si può capire.

La crisi del Pd non è neppure paragonabile alle crisi citate degli altri partiti di sinistra o di centrosinistra europei. Queste sono “governabili”; l’altra è strutturale e segue altre sconfitte rispetto alle quali nulla è cambiato. Insomma, i risultati di domenica confermano, se ce ne fosse ancora bisogno, che la “fusione a freddo” non è riuscita.

Ora, a Largo del Nazareno, dicono che in autunno bisognerà fare un “tagliando” al nuovo partito.

Quando le foglie cadranno è probabile che Di Pietro se lo sia mangiato tutto quel che resta del Pd e comunque è lui, il leader dell’Italia dei Valori che detterà da oggi in poi la linea a Franceschini e compagni, non tanto dall’alto del suo 8%, quanto per l’autorevolezza che gli deriva dall’aver inglobato buona parte dell’elettorato dei democratici il quale, peraltro, s’è pure indirizzato verso l’Udc di Casini (che ha beneficato anche di qualcosa proveniente dal Pdl, naturalmente).

Insomma, come pretenderà di costruire l’alternativa a Berlusconi il segretario del Pd o chi per lui, senza stringere un patto di ferro con Di Pietro e magari recuperare chi sta alla sua sinistra, tra coloro che vorrebbero entrare, ma non possono? E’ alle viste una riedizione dell’Unione? Porta male, lo sappiamo. Ma l’agonia è ancora peggio. E, francamente, non sapremmo cosa scegliere. È uno di quei casi in cui la politica avrebbe bisogno di uno slancio, di un colpo di fantasia.

Ma li vedete i moribondi del Pd mettersi alla testa di una rivoluzione che dovrebbe cambiare i connotati dal loro partito, nato deforme per espressa volontà dei molti padri e delle molte madri del loro partito?