Il federalismo di Calderoli rischia di portare la Repubblica alla dissoluzione

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 5 Aprile 2010 - 17:34| Aggiornato il 30 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Roberto Calderoli

La Lega ha le idee molto chiare. Per chi non lo avesse capito, suggeriamo la lettura attenta dell’intervista rilasciata da Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione, al Sole 24 ore il 4 aprile. Nell’uovo pasquale, confezionato dall’esponente del Carroccio, c’è la risposta alle molte domande che nella settimana post-elettorale un po’ tutti si sono posti. La più importante è quella relativa a che cosa chiederà Bossi semmai dovesse aprirsi la cosiddetta stagione delle riforme.

Calderoli fa sapere che il l’obiettivo del suo partito è quello di ottenere più federalismo. Oltre al varo dei decreti attuativi del federalismo fiscale da parte del governo che completerebbe ciò che è già legge dello Stato, il ministro leghista immagina di attribuire alle Regioni la competenza dell’istruzione e delle altre altre materie che le stesse hanno chiesto e  finora non ottenuto, elencate nel terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione.

Allo Stato, quindi, verrebbero sottratte tutte le materie a competenza concorrente, su cui molto si è discusso negli anni passati e che tanto contenzioso hanno prodotto davanti alla Corte costituzionale, e “quasi tutte quelle di competenza esclusiva dello Stato”. Ferma restando, aggiunge Calderoli, “la tutela dell’interesse nazionale che il finto federalismo del 2001 ha tolto”. E’ intuibile che fuori dalla portata delle Regioni resterebbero soltanto politica estera e difesa.

A pensarci bene l’unità nazionale non potrà trovare celebrazione migliore, in occasione del 150° anniversario, disfacendosi secondo il modello calderoliano. Nel quale troviamo anche un’apertura al presidenzialismo (ma non abbiamo capito bene di che tipo, posto che il ministro predilige quello alla francese, ma aborrisce il doppio turno di collegio che ad esso è strettamente connesso), a ben sei modelli di legge elettorale, all’abolizione del Csm che nell’ambito della riforma della giustizia sarebbe un organismo pletorico, ad un Parlamento “forte” (ma quanto e come?) e ad un rafforzamento dei poteri del presidente della Camera (ma non si precisa quali).

Uno schema su cui, secondo Calderoli, dovrebbero convergere le opposizioni. Ma non guidate dai personaggi che bene o male oggi sono al loro vertice, ma da altri: da una “classe politica espressa dal territorio”. E pensa a Chiamparino e ad Errani.

Calderoli ha il raro dono di non commisurare le pretese all’esistente e si sceglie perciò anche gli interlocutori pur sapendo che, almeno per ora, quattro chiacchiere dovrà farle con Bersani, Di Pietro e Casini i quali saranno pure i “moribondi di Palazzo Montecitorio”, ma rappresentano suo (e loro) malgrado l’opposizione.

Calderoli è un ministro della Repubblica italiana e non della Repubblica padana. Del suo progetto dovrebbe essere al corrente il capo del governo di cui fa parte, cioè Silvio Berlusconi. Osiamo ritenere che il premier non ne sappia niente. E allo stesso tempo temiamo che a Calderoli non  sia passato neppure per l’anticamera del cervello di mettere a conoscenza Berlusconi del suo progetto.

Non è una questione marginale. Se nelle prossime settimane si dovesse davvero aprire la tanto sbandierata stagione delle riforme, la maggioranza, dunque, Carroccio compreso, dovrebbe presentarsi con una proposta unitaria e da tutti i soggetti condivisa all’appuntamento parlamentare (posto che di tavoli extra-parlamentari l’opposizione non vuol sentirne parlare) e cominciare a discutere.

La piattaforma di Calderoli è quella di tutto il centrodestra? Nutriamo forti dubbi. E allora paventiamo lo scatenarsi di una guerriglia all’interno della coalizione a dimostrazione che i venti di crisi non partivano certo dai rilievi che Fini si permetteva di fare, in senso oltretutto costruttivo, e comunque senza la pretesa di dettare la linea al governo ed alla maggioranza che lo sostiene.

Una volta, tanto tempo fa, l’indimenticabile Gianfranco Miglio, pur sapendo che non ero un tifoso del federalismo, mi disse che comunque la crisi avrebbe spinto la Repubblica a dissolversi in quattro aree, in quattro “macroregioni”, come le chiamava lui, ma che al centro ci sarebbe stato il “decisore” capace di garantire l’unità della nazione ed armonizzare le diversità.

Non immaginava che l’allora  giovane Calderoli, avrebbe puntato più in alto, alla decomposizione dello Stato nazionale, risultato al quale si perverrà se all’interno della maggioranza non si farà strada un minimo di senso di responsabilità e, di conseguenza, ci si opporrà ad un disegno che, se realizzato, cancellerà l’Italia dalla geografia politica. Il centrodestra, mi pare di ricordare, non è nato per questo.