Mario Monti non è l’innovatore che immaginavo

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 12 Gennaio 2013 - 13:48 OLTRE 6 MESI FA
Mario Monti (LaPresse)

Mi era parso, ma deve essere stato un abbaglio. Del resto non sono stato il solo ad averlo preso. Personaggi più illustri di me ci sono cascati. Perciò ammettere che Mario Monti non è l’innovatore che immaginavo, né il conservatore che avevo sperato, non mi fa sentire a disagio. Sia chiaro, l’uno e l’altro profilo nelle grandi personalità convivono magnificamente: Disraeli ha innovato “da destra”, diremmo noi, come pure Bismarck, Reagan e la Thatcher. Essere progressisti, invece, è tutt’altra cosa e pur non condividendone la cultura d’ispirazione, rispetto profondamente chi lo è. Monti, francamente non so che cosa sia. E certo non mi aiuta la sua Agenda, povera e deludente sotto il profilo antropologico, etico e politico, ancorché ricca di cifre, confutabili come tutto ciò che concerne la riduzione della vita a mera contabilità, inadeguate comunque a comprendere l’orientamento di fondo di un partito, di un movimento o di una semplice lista.

Pertanto mi soffermo sullo “stile” dell’uomo che ritenevo politicamente più inappuntabile di quel che si è rivelato nel cimentarsi con candidature, apparentamenti, ibridazioni nella formazione della “squadra”, al fine di provare a definirlo posto che ciò aiuti a tracciarne un profilo politico.

Sembrava che Monti dovesse mutare i costumi partitici, invece si è rivelato degno erede del più vieto aziendalismo (e poi si dice che Berlusconi non ha fatto scuola) nel cimentarsi con un vasto progetto di selezione dei candidati da “nominare” deputati e senatori. A parte il fatto che in nessuna democrazia degna di questo nome s’è mai visto un “cacciatore di teste” che si trasforma strada facendo in un “tagliatore di teste” ingaggiato con il compito di scovare, esaminare, approvare e bocciare donne e uomini che dovrebbero concorrere a rappresentare gli italiani, all’esimio Professore che all’uopo ha incaricato, com’è noto, Enrico Bondi, andrebbe ricordato che il Parlamento non è un consiglio di amministrazione, che la politica non è la caricatura dell’economia finanziaria e che una lista elettorale non è l’anticamera di un regno angelicato.

Dubito che Monti comprenda la differenza che passa tra metodo tecnocratico e metodo politico; non gliene si può fare del resto una colpa: i partitocrati allo sbando lo hanno chiamato al capezzale della Repubblica e lui ha risposto chiedendo garanzie, fino a convincersi che un anno era abbastanza per diventare uno statista. Ma non dovrebbero dubitarne politici di lungo corso che si sono fatti sbatte in faccia la porta dell’ingratitudine da un burocrate che ha flirtato con tutti i poteri extra-nazionali illudendo molti (tra i quali il sottoscritto) che forse l’esperienza di leader (sia pure cooptato) di un grande Paese in un momento di gravissima crisi gli avrebbe fatto mutare avviso circa il riguardo che si deve alla politica, piuttosto che imbracciare l’antipolitica , come sta facendo, quasi a voler dimostrare che la sua forza deriva dal fatto che gli altri sono deboli. E, probabilmente, su questo punto non ha tutti i torti, posto che l’ingratitudine mostrata soprattutto verso il partito di Casini che più d’ogni altro lo ha sostenuto e gli ha spianato la strada verso l’avventura politica, testimonia l’imbarazzo dei sodali centristi – che pagheranno uno scotto elettorale notevolissimo per essersi piegati alle strambe logiche montiane in fatto di candidature – nel non aver saputo reagire a diktat francamente offensivi.

Come si fa, infatti, ad accettare regole che nulla hanno a che fare con la politica e minano l’autonomia degli stessi partiti come quelle che Monti ha imposto all’Udc che ha dovuto furiosamente litigare con il premier per “salvare” Cesa e Buttiglione, cioè i vertici, mentre non è riuscito a far candidare Enzo Carra che sconta, vent’anni dopo, l’arresto, volgarmente esibito in televisione, ordinato da Di Pietro al tempo di Mani Pulite?

Basterebbe questo per negare il voto ad un partito talmente imbelle da soggiacere a pruriti puritani che nulla hanno a che fare con la lotta politica. E non è detto che non accada.

Ma al di là di questo sconcertante aspetto della “salita” di Monti in politica, ve n’è un altro altrettanto grave che pone seri dubbi sulla capacità del premier di qualificarsi come “salvatore della Patria”. E’ il programma. Scarno, raffazzonato, contradditorio perché deve accontentare la Comunità di Sant’Egidio e Montezemolo, l’Udc e Fli, tecnocrati e gay, fuoriusciti del Pdl e fuoriusciti del Pd: un’insalata mista nella quale si colgono tutti i sapori, ma non se ne apprezza uno solo come nelle insalate ben riuscite. Insomma, l’assemblaggio non ha portato ad una identità riconoscibile e la gente si chiederà per quale motivo dovrebbe votare Monti, sempre che non si faccia abbindolare dalla solita promessa – che fanno tutti – di abbassare le tasse.

Avevo immaginato che un’ispirazione culturale operasse nell’impegno intrapreso dal Professore. Una cultura “fusionista”, insomma, che amalgamasse le diverse anime, senza ergersi a censore della declinante Seconda Repubblica. Non è andata così. Penso che i centristi siano già pentiti di essersi messi nelle mani di un Savonarola precipitato nella suburra romana per “normalizzare” i conti (non saprei dire se c’è riuscito fino in fondo), non certo per reinventare la politica. Questa è roba che non s’impara nelle aule universitarie. E soprattutto ha una sua autonomia, come insegnava il grande Carl Schmitt, che non può essere svenduta a nessuno e per nessun motivo, salvo che per ucciderla.

Monti non riuscirà comunque a far fuori la politica e, probabilmente, innescherà una reazione tale da rifiutare metodi, sistemi e indirizzi che creano disamore, distanza: con le “maniere forti” non si migliorano i rapporti tra cittadini e istituzioni. Occorre un approccio diverso per ottenere questo scopo. Bisogna aver studiato almeno qualche testo con più concetti e meno numeri. Cominciando, per esempio, con Il Principe di messer Niccolò Machiavelli che proprio quest’anno compie cinque secoli, portati benissimo. Quelle pagine non assomigliano ad un’agenda. E ci fa davvero piacere che provenienti da un mondo lontano ancora ci parlino ricordandoci, tra l’altro, che “cum parole non si reggono li Stati”. Purtroppo è quello che accade in questi nostri disgraziatissimi tempi gonfi di parole e privi di idee.