Cause “lumaca”, processi “pachidermici”. Sette storie di “bestialità” giudiziaria raccontano la lentezza dei tribunali nel nostro Paese. In media ci vogliono 1500 giorni di attesa perché una causa civile venga definita in tutti i suoi gradi. E a volte può capitare che una delle parti in causa muoia in attesa della sentenza. Ecco le sette vicende più emblematiche, raccolte da La Stampa, che spiegano quanto sia farraginosa la “macchina giudiziaria”.
Perugia. Una donna originaria di San Gregorio da Sassola, paese alle porte di Tivoli (Roma), è morta mentre attendeva la fine di una causa civile per una controversia ereditaria. La donna, che avrebbe compiuto tra poco 95 anni, non ce l’ha fatta ad aspettare ed è morta. La donna aveva intrapreso negli anni ’70 una causa per l’eredità materna.
Il tempo passa e l’anziana donna, stufa di aspettare, decide di fare causa allo Stato italiano: invoca l’applicazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che “punisce” pecuniariamente lo Stato per l’eccessiva durata di un processo. Nel 2006 la Corte d’appello di Perugia accoglie il ricorso e condanna il ministero della Giustizia a sborsare 8 mila euro e gli interessi legali per riparare il torto. I soldi non sono mai arrivati e, dopo la morte della donna, c’è da giurare che saranno i suoi eredi a continuare la battaglia legale.
Agrigento. Qui il processo è durato quasi 200 anni e comincia da un atto di compravendita di alcuni terreni nel comune di San Giovanni Gemini. Il principe di Campofranco (il venditore) sospetta che il perito abbia dato una valutazione al ribasso per avvantaggiare l’acquirente, che è un prestanome dell’influente famiglia Mendola. Il “conflitto” diventa globale e coinvolge anche il Comune e il commissario per le liquidazioni degli usi civici, introdotto dal regime fascista. Nel 2008 il commissario dà finalmente ragione al Comune (a cui vanno gli appezzamenti) e mette fine alla vicenda.
Taranto. Nella città ionica ci sono voluti 46 anni per approvare il rendiconto del fallimento di un’azienda. Al momento della sentenza però, l’imputato è già morto. La ditta in questione è quella di Otello Semeraro, fallita nel 1962. Nel 2008, dopo la scomparsa del titolare, arriva la sentenza del tribunale tarantino: nell’atto del giudice si legge che “all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso in aula”. Avrà avuto un “legittimo impedimento”?
Napoli. Protagonista del processo in questo caso è la Curia di Pozzuoli. La Diocesi chiede che le sia riconosciuta la proprietà di un terreno. Dopo anni di “battibecchi” verbali, il caso approda in Tribunale nel 1991. Nel 2003 però il processo viene dichiarato “estinto”. Ma l’isituzione ecclesiastica non ci sta e ricorre in appello. La prima udienza è stata fissata per il 16 marzo 2011. E se i giudici stabiliranno che il processo deve riprendere, si tornerà in tribunale. E tutto sarà “resettato” al “punto zero” del procedimento.
Cagliari. Un processo del 1969 dopo 40 anni e la morte dell’imputato ricomincia daccapo. Colpa di un errore del giudice, che ha condannato gli eredi dell’imputato a pagare per lui: peccato che abbia ripartito le quote per 3 anziché per 4. Il procedimento ebbe inizio con l’accusa di occupazione abusiva di suolo pubblico nel capoluogo sardo. L’imputato non si è presentato nelle prime 59 udienze, per un totale di 25 anni. Nel frattempo, la causa è passata nelle mani di Aldo De Montis, figlio dell’avvocato che aveva cominciato la disputa legale.
Caltanissetta. Una battaglia sull’eredità durata 35 anni finisce con un accordo tra le parti, ma l’accordo viene impugnato proprio da una delle parti. L’avvocato Alessandro Palmigiano spiega che “c’è chi vuole sapere se quell’accordo è valido”. La famiglia palermitana, arrivata in tribunale per contendersi una villa storica e un terreno, ha nel frattempo intrapreso un’altra causa: i giudici di Caltanissetta avevano assegnato ai “fratelli coltelli” 10 mila euro per l’eccessiva durata del processo, con la motivazione che erano “troppo litigiosi”. E loro, per tutta risposta, si sono rivolti alla Cassazione.
Palermo. Un altro caso palermitano, un’altra storia di eredità, questa volta “celebre”. E’ la storia della “beffa” per gli eredi di Salvatore Tagliavia, armatore, sindaco, tre mogli, ma nemmeno un figlio. Quando morì, nel 1965, lasciò proprietà per un valore complessivo di 100 miliardi di lire: ville, feudi, gioielli e quadri d’autore. Ma, come racconta l’avvocato Cristina Nicastro, sull’eredità mise le mani il boss mafioso Michele Greco, grazie all’intervento dei fratelli Gioia, noti membri della Dc dell’epoca. “Con una serie di sofisticatissime operazioni societarie – racconta il legale – i Gioia lasciano agli eredi solo le briciole”. L’ultimo dei processi per l’eredità Tagliavia è cominciato nel 1987, e ha come “oggetto della contesa” un palazzo storico di via Cavour. La Cassazione non ha ancora espresso il suo verdetto.