“Guerra alla Russia, è costata 3,6 miliardi”: Cgia Mestre

di Giuseppe Turani
Pubblicato il 29 Marzo 2016 - 06:00 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – Il prezzo della guerra alla Russia è il tema di questo articolo di Giuseppe Turani pubblicato anche su Uomini & Business col titolo “Il costo della guerra”.

Per la prima volta della sua lunga e benemerita storia la

"Guerra alla Russia, è costata 3,6 miliardi": Cgia Mestre

“Guerra alla Russia, è costata 3,6 miliardi”: Giuseppe Turani riferisce i conti della Cgia di Mestre

, famosa per tante analisi sulla realtà italiana, ha stilato una specie di bollettino di guerra:

“A seguito della crisi politico-militare con l’Ucraina, le sanzioni economiche introdotte nel 2014 dall’Ue nei confronti della Russia e le reazioni di Mosca sono costate al made in Italy 3,6 miliardi di euro. L’export italiano verso la federazione russa, infatti, è passato dai 10,7 miliardi del 2013 ai 7,1 miliardi di euro del 2015 (34%)”.

Abbiamo ottenuto almeno altri vantaggi? Non risulta. Abbiamo solo inasprito un po’ i rapporti con la Russia, buona cliente e con la quale siamo sempre stati in buon i rapporti fin dai tempi dello stabilimento Fiat di Togliattigrad.

Ma il bollettino di guerra della Cgia prosegue implacabile: “La Lombardia è la regione che più ci ha rimesso perdendo 1,18 miliardi del proprio export. A seguire Emilia Romagna (-771 milioni) e Veneto (-688,2 milioni)”.
I settori più colpiti, macchinari e abbigliamento, come forse era prevedibile: “ Dei 3,6 miliardi di minori esportazioni, 3,5 sono ascrivibili al comparto manifatturiero. I macchinari (-648,3 milioni di euro), l’abbigliamento (-539,2 mln), gli autoveicoli (-399,1), le calzature/articoli in pelle (-369,4), i prodotti in metallo (-259,8), i mobili (-230,2) e le apparecchiature elettriche (-195,7) sono stati i settori dove i volumi di affari hanno registrato le contrazioni più importanti”.

Qui finisce il bollettino di guerra degli artigiani di Mestre, il cui senso è chiarissimo. Fare guerre non serve agli affari “normali” e nemmeno inasprire i rapporti internazionali. Il business vuole la pace e la serenità. E gli affari, se ci si pensa, sono un grande esportatore di democrazia. Girano più soldi, il benessere aumenta, e l’idea di conflitti armati diventa sempre meno apprezzata.

Non è la prima volta che l’Italia incontra questo problema.

Il fondatore della Fiat, Giovanni Agnelli, aveva perfettamente capito questo. Infatti è sempre stato un socialdemocratico (il partito di Saragat è stato da lui finanziato con generosità). Non credo tanto per convinzione ideologica quanto per avere un paese più sereno e lontano dagli estremismi.

Quando il fascismo si è insediato, il senatore Agnelli è stato richiamato dal prefetto perché preferiva parlare son il sindacato Cgil invece che con quello fascista: “Ma non hanno iscritti”, avrebbe risposto al prefetto. E quando la camicia nera divenne obbligatoria, alla moglie disse :”Prendine una bianca e falla tingere, così poi la laviamo”.

Ma il mondo non  era così semplice (racconto queste vecchie storie perché hanno un senso ancora oggi). Agnelli era socialdemocratico perché lui faceva un prodotto di massa che poteva vendere solo in una società pacifica e in crescita. Ma a un certo punto si trovò di fronte un altro gruppo, gli Orlando, che invece facevano navi e altro e ai quali la guerra non dispiaceva affatto. Anzi, era una benedizione. Ne nacque una guerra fra i due gruppi memorabile. A un certo punto trasferirono le ostilità entrando in due gruppi bancari diversi, anche loro gettati nella mischia.
Ma non è finita. Il successore di Agnelli, il professor Valletta, alla Liberazione viene sequestrato nei suoi uffici dagli operai-partigiani che hanno occupato lo stabilimento di Mirafiori. La vicenda finisce in tribunale. Valletta si presenta davanti ai giudici e, candido come un giglio, mente spudoratamente: “Ma quale sequestro? Insieme ai miei operai stavamo proteggendo la fabbrica da eventuali violenze”. Tutti assolti, vicenda chiusa. Pace prima di tutto.

Lo stesso Valletta, arrivate le tensioni, fu poi implacabile nel fare la guerra ai comunisti in fabbrica. In un reparto arrivò a licenziare tutti i 901 dipendenti, meno uno (aveva avuto delle commesse importanti dall’America e gli americani non volevano comunisti a fabbricare le cose loro, erano tempi di guerra fredda).

Tutte queste vecchie storie per dire che le tensioni internazionali non fanno bene agli affari, e quindi nemmeno ai lavoratori. Nel caso specifico la Russia è un buon  cliente dell’Italia, converrebbe avere rapporti più normali e sereni