Pil Italia. Salito nel 2009, poi crollato: Fiscal compact, tasse, tagli la colpa

di Gustavo Piga
Pubblicato il 8 Agosto 2014 - 07:58| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA
Pil Italia. Salito nel 2009, poi crollato: Fiscal compact, tasse, tagli la colpa

Pil in Italia: è salito nel 2009, poi è crollato: La colpa è del Fiscal compact, delle tasse, deitagli alla spesa per gli investimenti pubblici

Torniamo indietro di cinque anni e proviamo a ripercorre la strada percorsa dall’Italia, una strada all’inizio giusta poi sbagliata, che ci ha portato dove siamo. Cerchiamo di capire cosa è stato, cosa potrebbe essere e cosa rischiamo che sarà. Tutto ci porta agli effetti sul Pil, il prodotto interno lordo, determinati dall’incrocio di due azioni del Governo, o meglio dei Governi che si sono succeduti: quella sulla spesa pubblica e quella sulle tasse. Sono cose che ho già detto e scritto:

I numeri sono numeri, il Pil è il Pil. Nel Pil non entrano né la spesa per interessi né la spesa pensionistica: sono trasferimenti da un cittadino ad un altro che non richiedono più produzione alle imprese. La spesa pubblica che incide sul Pil, perché genera servizi, beni, lavori è quella per stipendi pubblici e appalti. Cosa è successo alla spesa pubblica che incide sul Pil, su quel Pil che non c’è più, dal 2009, anno in cui la politica economica ha dovuto combattere, più male che bene, la crisi finanziaria del 2008? Il Pil nel 2008 è sceso per la crisi mondiale; dal 2009 al 2010 è risalito e poi è risceso nel 2011 e non si è fermato più. Deve essere successo qualcosa di diverso tra quanto avvenuto tra il 2009 ed il 2010 e quanto avvenuto dal 2011 in poi. Non sarà gran fatica capire il perché: è successa una sola cosa diversa, tra 2009 e anni successivi, nella politica economica. È successo che nel 2009 – e solo allora – si è fatto quello che si fa sempre nelle crisi da mancanza di domanda interna di questo tipo: si è sostituita la domanda privata scomparsa e terrorizzata di imprese e famiglie con quella certa e visibilissima dello stato, fatta di maggiori appalti. Cito il Ragioniere Generale dello Stato: nel 2009 la spesa primaria corrente in termini reali (senza tener conto dell’inflazione) è aumentata del 3,4% e la spesa in conto capitale (gli investimenti pubblici) 12,2%. I risultati si vedono: il Pil riprende la sua marcia. E se solo avessimo continuato… Perché non l’abbiamo fatto? Perché è entrato in gioco un meccanismo europeo assurdo che si chiama Fiscal Compact, che ci obbliga a non usare la spesa pubblica quando l’economia soffre. Così la spesa primaria senza contare le pensioni ed i sussidi, quella che contiamo nel Pil, è scesa da 432,6 miliardi del 2010 ai 420,7 del 2014 in termini nominali mentre i famosi investimenti pubblici sono scesi da 51,8 a 45,4, una diminuzione di più del 10% in termini nominali. Abbiamo smesso purtroppo di costruire ponti e abbiamo smesso di spendere soldi per la scuola e l’università. Oggi ci vogliono 3 professori universitari che vanno in pensione per assumere un giovane ricercatore e che quest’ultimo viene pagato la metà dei suoi colleghi stranieri. I margini per investire ci sono eccome: queste stupide regole europee a cui abbiamo aderito almeno prevedono che quando il Pil comincia a scendere si possa interrompere la corsa a ridurre le spese e aumentare le tasse. Con la crescita che esse avrebbero generato avrebbero dato forza al Paese per essere ripagate senza maggiori tasse, anzi con meno in percentuale. Oggi invece l’Italia è debole e per ottenere le stesse entrate bisogna tassare sempre di più in percentuale le persone. E i conti pubblici continuano a peggiorare. Invece di ridurre il deficit nel 2015, in recessione, dal 3% all’1,6% di PIL, Matteo Renzi rimanga al 3% (o arrivi al 4 come Francia e Spagna) e usi questa opportunità per non aumentare le tasse, non tagliare a casaccio stipendi a maestri e ricercatori, poliziotti e medici, fare investimenti a Taranto per la bonifica del territorio, fare appalti per dare tecnologia avanzata ai nostri ospedali e per ricostruire molte più scuole di quanto non se ne intendano rimettere a nuovo oggi. È così che potrebbero ripartire le nostre imprese, i consumi delle famiglie, la riduzione del debito pubblico e della disoccupazione.