Italia nel concerto mondiale, Draghi come Cavour per i limiti alla politica estera: la Storia non perdona

Italia nel concerto europeo e mondiale, Draghi come Cavour per i limiti alla politica estera: la Storia non perdona

di Emiliano Chirchietti
Pubblicato il 17 Luglio 2022 - 07:13 OLTRE 6 MESI FA
Italia nel concerto mondiale, Draghi come Cavour per i limiti alla politica estera: la Storia non perdona

Italia nel concerto mondiale, Draghi come Cavour per i limiti alla politica estera: la Storia non perdona

Italia nel concerto europeo e mondiale, Draghi come Cavour per i limiti alla politica estera: la Storia non perdona. In politica estera siamo ancora a rincorrere Camillo Benso Conte di Cavour. Tra i problemi che il nascente Stato italiano ebbe da risolvere nel 1861, ci fu quello di ottenere il riconoscimento dalla comunità internazionale.

Ed era questione di non poco conto, perché il riconoscimento avrebbe garantito in generale la sicurezza dei confini, ed in particolare dall’eventuale astio austriaco nonché dalle ambizioni di quei sovrani, e del Papa, che dall’Unità ebbero a perdere. 

Quindi era arrivato il momento per il Regno di cominciare a muoversi nel consesso internazionale con una propria politica estera. 

Lo scenario era assai complicato: Napoleone III di Francia con lo zar Alessandro di Russia e la Prussia, vedevano nelle vicende italiane l’occasione per modificare gli assetti usciti dal Congresso di Vienna del 1815. La Gran Bretagna del primo ministro Lord Palmerston ambiva a mantenere il proprio potere militare e commerciale. Il giovane Stato italiano doveva imparare a nuotare.

Tuttavia, le vere difficoltà erano altre. 

Gli Stati europei ritenevano che il processo d’indipendenza si era determinato nel non rispetto delle norme di diritto pubblico europeo vigenti. Qualsiasi cambiamento dello statu quo, doveva essere legittimato dal concerto europeo, composto da Gran Bretagna, Francia, Austria, Prussia e Russia. L’autodeterminazione a scapito del concerto europeo, e il principio di nazionalità contrapposto al legittimismo dinastico, erano per le potenze internazionali da considerarsi atti eversivi. Non fu quindi per caso che Cavour, al momento della proclamazione del Regno, utilizzò parole rassicuranti e di equilibrio.

Il doppio equilibrio di Cavour

Cavour; se per un verso tese a garantire che la fase rivoluzionaria fosse giunta al termine, per un altro fu molto attento a non disconoscere i valori che caratterizzarono il percorso unitario. Una posizione che teneva insieme più esigenze e che contribuì a formare alcune caratteristiche che rimarranno a lungo nella politica estera italiana, ovvero il principio di nazionalità e la costante ricerca di un ruolo paritario tra le grandi potenze.

Fu così che i problemi ancora aperti in Italia, nelle loro interdipendenze con la politica generale europea, divennero la guida della politica estera. Indipendenti sempre, ma isolati mai, sosteneva il ministro degli Esteri del 1863, Emilio Visconti Venosta. E tutto ciò era inevitabile, perché, ad esempio, il rapporto con la Francia di Napoleone III non poteva non prescindere dalla questione romana. O come i rapporti con Berlino e Austria non potevano che essere nel segno della questione veneta.

Con i governi della Destra questa impostazione si tradusse in relazioni prudenti e leali, di salvaguardia della pace europea, una sorta di faticoso non allineamento che mostrò tutti i suoi limiti. Con il primo governo di Sinistra, guidato da Agostino Depretis, la diplomazia estera virò verso l’ambizione.

Italia fuori dal passato a piccoli passi

Sebbene a piccoli passi, l’allontanamento dal passato fu evidente. Bismarck nel 1879 ebbe a dire degli italiani come di persone cui l’appetito era spuntato prima dei denti. Parole certamente non lusinghiere ma che andavano a sottolineare una nuova postura italiana. Che divenne palese con l’adesione alla Triplice Alleanza italo-austro-tedesca siglata a Vienna il 20 maggio 1882. Della neutralità non c’era più traccia.

Con la Triplice l’Italia usciva dall’isolamento diplomatico. L’Alleanza, tipicamente difensiva, venne rinnovata nel febbraio del 1887 con il ministro Carlo Felice Nicolis, conte di Robilant. E prolungata fino al 1892 con l’aggiunta di due ulteriori trattati distinti, uno tra Austria ed Italia e uno tra Italia e Prussia. 

Tuttavia, nonostante l’uscita dall’isolamento, nemmeno il rinnovo della seconda Triplice prevedeva la possibilità di iniziative proprie dell’Italia; tutto, o quasi, dipendeva da passi altrui, dal concatenarsi di particolari avvenimenti. 

La nuova diplomazia di Crispi

Ci provò Francesco Crispi, Presidente del Consiglio dal 1887 al 1891, e dal 1893 al 1896, a cercare una nuova strada che potesse far conquistare all’Italia uno status significativo tra le grandi potenze. Molte furono le sue mosse. In particolare, nel 1889, il Presidente stipulò, con l’intento di penetrare in Africa orientale, il trattato di Uccialli, con il negus Menelik, che assegnava all’Italia il protettorato sull’Etiopia. Una brutta storia questa, fatta d’imbrogli, furberie, iniziata bene e finita malissimo, che si trasformò in un conflitto durato sei anni e terminato con la disfatta di Adua. 

Crispi tentò di reagire alle critiche, ma non ce la fece e cadde nel 1891. Al suo posto Antonio di Rudini. 

Capo della Destra, moderato, Rudini tenne per sé la delega all’Estero e rinnovò la Triplice Alleanza, che intanto era diventata nei contenuti strumento di fervore antirusso da parte della Germania post-bismarckiana. Ovviamente la reazione dell’altro fronte non si fece attendere: Francia e Russia costituirono tra il 91 ed il 92 la Duplice Alleanza. 

La storia della politica estera italiana, così come la si legge nel bel saggio di Liliana Saiu, “La politica estera italiana dall’Unità a oggi” – dal quale questo articolo ha liberamente attinto fin qui alcuni argomenti e parole – è ricca di questi accadimenti. 

Come quella di molti paesi, anche la nostra è frutto di continui riposizionamenti che si sono stratificati uno sull’altro nella Storia. Con parole diverse potremmo dire, semplificando molto, che  siamo la somma di tutto quel che siamo stati, più, un buon numero di variabili, alcune prevedibili ed altre meno, che interagiscono producendo effetti positivi e talvolta disastrosi. Esiste un margine di azione per il presente ma non si può non prescindere dalla nostra storia, dalle scelte fatte nel passato. 

Italia, Francia, Austria

In questo senso, il tempo che passa, ricopre un ruolo molto importante. È evidente che la Francia oggi non ci rinfaccerà l’adesione alla Triplice del 1882, come noi non portiamo rancore all’Austria per aver violato gli accordi dell’Alleanza con l’ultimatum e la dichiarazione di guerra alla Serbia del 1914. Tuttavia, si comprende, come talune scelte del passato, o del recente passato, possono diminuire o aumentare gli spazi di manovra presenti e futuri. In questo senso la memoria diventa terra sulla quale camminiamo.

La nostra politica estera è maturata in questa logica. Lo schema atlantismo ed europeismo è il risultato del percorso lungo e travagliato che è seguito alla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale. Se non si  comprende questo, il rischio di confondere la Farnesina con il Risiko è molto alto. Atlantismo ed europeismo è uno spartiacque, c’è un prima e c’è un dopo.

E ora la guerra in Ucraina

Il conflitto ucraino non ha fatto altro che evidenziare tutto questo. A differenza di crisi militari precedenti, questa ha caratteristiche particolari, coinvolge le grandi potenze mondiali, si combatte nel cuore dell’Europa. Nella sterminata pianura ucraina, il nervo scoperto della Russia. Essa vede in quel cuneo di territorio, un pericoloso corridoio che potrebbe portare qualsiasi esercito fino a Mosca. Probabilmente sarà una guerra destinata a spaccare profondamente la comunità europea, riproponendo una condizione generale da cortina di ferro – o come l’ha definita la rivista Limes “la cortina di acciaio”. 

Quando come in questo caso sono in discussione gli assetti geo-politici e diplomatici del mondo, il peso della Grande Storia si fa sentire. Nei tavoli delle diplomazie non siede solo il Presidente del Consiglio o il suo Ministro degli Esteri, ma l’Italia, con il suo passato, nel bene e nel male. Ritornano gli Imperi, storiche alleanze e rivalità, si rispolverano cartine e mappe, contano i tratti distintivi non le sfumature. Certo, poi ci sono anche quelli che tirano fuori i pastrani dai ripostigli o gli elmi prussiani dai bauli, ma è solo folclore. Tutto questo non vuol dire rinunciare ad un ruolo di primo piano. Anzi, è l’esatto contrario. 

Il ruolo dell’Italia

Noi, l’Italia, ci stiamo dentro con una consapevolezza che va a fasi alterne. Non è un caso che l’unico intervento degno di nota in questi mesi sia stato l’aiuto che Draghi ha dato per smuovere il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti sulla questione dello Swift. E non è nemmeno un caso che il Piano di Pace italiano sia malamente naufragato e dimenticato.

A prescindere da come la si veda, siamo ancora là dov’era Camillo Benso, con il principio di nazionalità tra le mani e l’affannosa voglia di avere un ruolo paritario tra le grandi potenze. Pensavamo che la Storia fosse finita con la caduta del Muro di Berlino, ci sbagliavamo.