Berlusconi e il Tremonti “straniero”. Questione di soldi e di voti

di Lucio Fero
Pubblicato il 26 Settembre 2011 - 19:00 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Silvio Berlusconi non ne può più di Giulio Tremonti: più o meno i giornali, i telegiornali e anche i parlamentari la raccontano così. Come una storia di personali insofferenze e incompatibilità, come un braccio di ferro a chi “conta” di più, come il contrasto tra il super premier, tra l’esuberanza repressa del “ghe pensi mi” e il presuntuoso carattere del super ministro convinto che gli altri suoi colleghi di governo nemmeno sappiano far di conto. E’ un racconto favolistico che per farla semplice la narra sbagliata. Silvio Berlusconi di Giulio Tremonti non ne può più non da oggi, ma da ieri e dall’altro ieri. Perché Giulio Tremonti è da mesi “straniero” rispetto all’istinto, alla natura, alla cultura non solo del premier ma di tutto o quasi il Pdl. Non ne possono più di dover fare quello che non sanno e non vogliono fare, il basta a Tremonti è solo l’effetto ultimo e non la causa prima di questa che non è insofferenza ma politica impossibilità. Chi è nato tondo non può morire quadrato, e questo vale anche per Berlusconi e il suo Pdl.

La storia comincia con il risultato delle ultime elezioni amministrative. Risultato negativo per il Pdl e per il governo. La reazione istintiva, naturale, dettata dalla cultura e dal dna politico e sociale della destra di governo punita dal voto alle amministrative era e infatti fu una semplice, chiara, automatica: innaffiare di soldi pubblici l’elettorato scontento e rinfrescare così il consenso che mostrava segni di scadenza. Qualcuno lo scrisse già all’indomani dei risultati: Berlusconi spenderà soldi pubblici e abbasserà le tasse. Anche a  costo di aumentare deficit e debito pubblico. Piuttosto che correre il rischio di perdere le prossime elezioni politiche, Berlusconi correrà il rischio del mandare l’Italia vicina al crack finanziario. Non era una previsione, era la logica conseguenza dedotta da come il Pdl e la destra di governo aveva sempre affrontato opinione pubblica, elezioni, impegni di governo e impegni europei. E infatti subito dopo maggio il giugno di Berlusconi fu un mese di promesse: le aliquote Irpef ridotte di numero e dimagrite in percentuale, i sondaggi di Berlusconi in Europa per avere il via libera per nuovo deficit e debito…

Lo stava facendo Berlusconi, lo avrebbe fatto: avrebbe riconquistato l’elettorato anche al prezzo di avvicinare l’Italia all’area rischio di bancarotta. Si sarebbe tenuto sul filo, lui avrebbe detto “sul filo del fuori gioco”, sperando nessun arbitro europeo e finanziario fischiasse il “fallo di gioco”. Solo che a luglio, prima ancora che Berlusconi possa fare, il filo si annoda intorno al collo dell’economia e della finanza italiana. Prima ancora che Berlusconi possa muoversi, l’area di rischio salta al collo di Berlusconi e del suo governo. Ed entrambi sono costretti a fare quel che non sanno e non vogliono fare: le manovre di stabilità finanziaria. Talmente costretti e di malavoglia che fanno in maniera perfino grottesca. Non tanto e non solo le cinque manovre ognuna delle quali viene proclamata dal premier ottima, abbondante e soprattutto definitiva. Ma la grottesca storia di Berlusconi che prova a bypassare i fatti chiedendo all’Europa, alla Bce, a Trichet di indicare come l’Italia possa “adeguare” alla natura, cultura e istinto del Pdl l’accordo di stabilità finanziaria firmato in Europa da Berlusconi stesso: quello che imponev a il pareggio di bilancio, insomma niente più deficit annuale, entro il 2014. Berlusconi chiede la “lettera” della Bce e si ritrova con in mano una lettera che impone niente deficit al 2013.

Da quel momento Berlusconi e il Pdl sono due molle compresse, compresse al punto da dolere a se stesse. Se fanno sul serio, se salvano l’Italia dal rischio bancarotta nei tempi e nei modi previsti, allora perdono le elezioni. Natura, cultura e istinto di Berlusconi e del Pdl non possono tollerare lo scambio. Quindi fanno: poco, male e di malavoglia. Ma soprattutto non vogliono fare e la molla compressa non ce la fa più a restare tale. Infatti è settembre e si ricomincia: il Pdl vuol spendere e smettere di tassare. Ed ecco che Tremonti appare al Pdl e a Berlusconi “straniero”. Addirittura “socialista” come gli rimproverano nel partito e nel governo. Tremonti che socialista non è e neanche più di tanto “rigorista”. E’ solo e soltanto uno che sa, perché l’Europa, i mercati e il mondo glielo sbattono in faccia ogni giorno, che comprarsi un successo elettorale con meno tasse e più spesa oggi non si può più fare. Non perché sia indecente, tutt’altro. E’ che se lo fai, poi lo paghi con gli interessi. Insomma se lo fai, domani probabilmente vinci le elezioni e dopodomani sei diventato più o meno la Grecia.

Ora la destra di governo costruirà una “cabina di regia” che funga anche da gabbia di controllo a Tremonti. Ora la molla compressa della destra di governo fa sapere al mondo che non ne può più. Di Tremonti certo, ma Tremonti è un trascurabile particolare. Non ne può più del peso e della responsabilità di tagliare la spesa e di scegliere come tagliarla. La prima cosa mette di malumore l’elettorato, ma la seconda è peggio: chiama le corporazioni di spesa alla rivolta. Non ne può più di tassare, ma non sa come diversamente tassare. Se fa la patrimoniale e abbassa l’Irpef dà sollievo ai salari e forse aiuta le imprese, ma colpisce il portafoglio e l’immaginario della sua “narrazione elettorale”. La destra di governo comincia a sentir odor di elezioni e vorrebbe fare come sempre: vincerle togliendo una qualche Ici. Di questa sua reazione i mercati, i risparmiatori, gli investitori prendono atto. Quindi si fidano ancor di meno, prendono ancor più paura e il “filo del fuorigioco” sempre più si stringe al collo della finanza e dell’economia italiane. Ma il governo, Berlusconi e il Pdl non possono resistere alla propria natura e cultura e istinto: si raccontano che il problema sia il Tremonti “straniero in casa”. Mentre il problema è la loro estraneità alla politica ed economia contemporanea. In tutto l’Occidente non c’è una sola destra di governo che si mostri insofferente all’obbligo di evitare il default. Anzi in Occidente una destra così c’è: è quella americana del Tea Party, ma negli Usa non governa. E quindi Tremonti altro non è in piccolo che una Thatcher meridionale, periferica e minimalista. Roba che al Pdl non solo non basta, roba che irrita il Pdl. Perché, se appena gratti, in economia sotto la superficie del Pdl c’è un Tea Party all’italiana. Questo è l’istinto, la cultura e la natura. E la strategia è: per vincere le elezioni passare sul cadavere del bilancio, dei mercati, se necessario dell’Europa e dell’euro. Tremonti, lo “straniero” Tremonti, non è un ostacolo, è un ingombro. La molla compressa del Pdl sta scattando, se avrà tempo rimbalzerà in faccia al paese.