Chiedi e depreda: l’Italia unita. I 150 anni di un paese, il “massaggio” ai turisti, i soldi alla cultura…

Pubblicato il 21 Luglio 2009 - 13:29| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Lo sai che nel 2011 fanno 150 anni dell’unità d’Italia? Davvero, e a me che me ne viene? Non è lo scambio di battute tra due molto indifferenti e moltissimo “pragmatici” abitanti qualunque della penisola. È invece il dialogo che da due anni si svolge e si infittisce tra le istituzioni: l’Italia compie un secolo e mezzo ma l’unica cosa che interessa ai suoi vari spezzoni è cosa e quanto ne viene in tasca, allo “spezzone” s’intende.

Era il 2007 e il governo Prodi dovendo decidere come celebrare il centenario e mezzo di una nazione sceglie in assonanza con il sentire diffuso di moltiplicare il più possibile il numero di coloro ai quali “gliene viene qualcosa”. Un Palazzo del Cinema e dei Congressi a Venezia, un aeroporto a Perugia, un parco costiero ad Imperia, un auditorium ad Isernia, un parco della musica a Firenze…Undici opere pubbliche sparse sul “territorio”, denaro pubblico per molti, il compleanno della nazione come pretesto.

Per molti, ma non basta. Nel 2008 si aggiunge il restauro del teatro D’Annunzio a Pescara, Palazzo d’Accursio a Bologna, la Rocca ad Ancona, un Herbarium mediterraneo a Palermo, un centro culturale mitteleuropeo a Udine, la sede Istat a Roma…

Arriva il governo Berlusconi e aggiunge: il Palazzo degli esami a Roma, il campus universitario a Latina, il restauro del castello di Moasca (Asti), l’orto botanico di Catania… Tutto in nome e sul conto dei 150 anni dell’unità d’Italia.

La storia la racconta Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera. La conosce bene, è uno dei “garanti” nominato dal governo. Garanti di nulla, secondo la sua stessa definizione ed esperienza. Conclude così il suo racconto: «La classe politica italiana, di fronte alla necessità di immaginare un modo per ricordare il senso e il valore della nascita di una nazione, fa la sola cosa che sa fare e che in fondo la società le chiede: distribuire soldi». Quindi un ceto politico che non sa “pensare” un nazione e una società civile (?) a metà questuante e a metà taglieggiatrice nei confronti del denaro e della cosa pubblica. Dovendo celebrare la nostra identità-paese, abbiamo scelto, tutti insieme, la scenografia della mano tesa, e riempita…

Una storia per scandalizzarsi? Non sia mai: ogni forza politica, ogni governo nazionale e locale, ogni comunità e associazione partecipa di buon grado, anzi esige questa modalità della vita collettiva. Una storia così, tanto per sapere di quale pasta pubblica siamo fatti. E per non stupirsi quando scopriamo(?) che il turista è per gran parte degli esercenti ed albergatori un’occasione “one shot”. Colpiscilo più forte che puoi, cogli l’occasione. È questo lo spirito imprenditoriale con cui lo spenniamo, mica solo i giapponesi e mica solo a Roma. Farsi pagare cinquanta centesimi un bicchier d’acqua significa avere il senso di una identità, non quella del ladro ma quella del predatore che alla lunga desertifica e resta senza selvaggina.

La stessa identità, lo stesso senso di sé che esibiscono bravi artisti e splendidi professionisti che però quando diventano entità collettiva con naturalezza e orgoglio indossano i panni del “predatore questuante”. Mario Monicelli, i fratelli Vanzina, Ettore Scola, Nanni Moretti, Ricky Tognazzi, Luca Barbareschi, Gabriella Carlucci… e decine centinaia di altri attori, registi, sceneggiattori, musicisti. Tutti con il lutto al braccio perché il governo non finanzia più la cultura con il Fus, fondo unico per lo spettacolo. Vero, però non ce n’è uno che dica: questi sono i tre/quattro teatri d’eccellenza da tenere in piedi, queste le due orchestre, questi i parametri per una cinematografia da aiutare. E nessuno che dica che non è cultura, non sono cultura le centinaia, migliaia di “manifestazioni” sul territorio tanto squallide come dispendiose. Si difende non la cultura, che il governo in carica ama pochino e capisce ancor meno, si difende una fonte di reddito. E lo si fa in maniera corporativa: tutti dentro, tutto dentro, basta mascherarsi dietro la parola “cultura”.

Così come dietro la formula “Unità d’Italia” si sono mascherati l’acquario, l’erbario, la tangenziale, la piscina…Italia, cultura. Sì, va bene, ma a me che me ne viene?