Il bimbo morto sulle strisce, il predatore di iPhone e il padre ricettatore

di Lucio Fero
Pubblicato il 2 Ottobre 2012 - 14:05 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – E’ il 4 dicembre del 2011, a Torino Calogero Sgrò sta attraversando la strada insieme a suo figlio di sette anni. Sarà l’ultima cosa che faranno insieme: sono sulle strisce pedonali ma una auto pirata, più tardi si saprà con a bordo due tossicodipendenti, li travolge e il bambino di sette anni non si rialzerà più: una forma ottusa e violenta della cattiveria umana lo ha ucciso. La forma di due tossicodipendenti che in disprezzo della vita altrui si mettono al volante e falciano chi ha la sventura di attraversare la loro strada. Ma la storia non è finita, altre e peggiori cattiverie umane, al limite dell’inqualificabile, stanno per entrare in scena quel giorno a Torino.

La cattiveria sotto forma di incosciente insensibilità e di non controllato istinto predatorio di un branco di adolescenti. Sono lì intorno, intorno a luogo dell’incidente fanno ronda. Scorgono un iPhone incustodito là in terra, è quello del padre del bambino ucciso. Scorgono, adocchiano, raccolgono, anzi predano. Uno di loro ha 13 anni ma questo non può essere alibi, giustificazione. Attenuante sì, ma nulla di più. C’è cattiveria umana in quel gesto di impossessarsi dello iPhone di chi è stato investito, di chi è a terra. C’è cattiveria predatoria e non è neanche “predazione” aperta e coraggiosa. Anche se inconsapevole, probabilmente non sapevano del bambino morto, quella di quel branco di adolescenti quel giorno a Torino è predazione che ha un che di vigliacco e sordido. Ma sono ragazzi, non meritano perdono ma comprensione sì. Comprendere, non giustificare.

Ed eccola la vera, la peggiore cattiveria umana, arriva alla fine della storia. L’adolescente che ha razziato l’iPhone arriva a casa e, come non è dato sapere, comunica quanto avvenuto al padre. Forse il padre scopre l’iPhone casualmente, forse il tredicenne voleva nascondere il bottino ma non c’è riuscito. O forse invece è proprio lui che esibisce al padre il trofeo conquistato per le strade della città. Quel che è certo è che il padre fornisce un solo consiglio: cambia la sim e tieniti l’iPhone. Un consiglio fornito come esperienza di vita, astuzia di vita, insegnamento pratico sul come cavarsela e farla franca. Un consiglio fornito forse come ovvio e banale nella testa di questo genitore. Forse, concediamolo evangelicamente, non sa quello che dice.

Ma anche se quel padre non sa quel che dice, il suo consiglio è criminale e bestialmente cattivo. Cattiveria umana verso quel bimbo morto a sette anni sulle strisce pedonali di cui pure quel padre avrà saputo qualcosa, se non dal figlio, dai notiziari. Cattiveria umana verso se stesso nell’autoridursi a ricettatore e complice dell’incoscienza predatoria del figlio. Cattiveria verso suo figlio tredicenne con tutta evidenza allevato ed educato ad approfittare con destrezza della disgrazia altrui. E cattiveria, la peggior umana cattiveria possibile diffusa, sparsa in giro come contagio. Perché ci sarà senz’altro qualcuno, anzi più d’uno, che dirà o penserà senza dirlo che il consiglio di “far sparire la sim” era la miglior protezione da offrire alla sua prole. Qualcuno che si appellerà alla “difesa della famiglia” spacciando per ferina regola di sopravvivenza una subcultura da mafiosi in miniatura. Cattiveria diffusa da cui quel padre non è certo il paziente zero, dalla pestilenza è stato a suo tempo contagiato anche lui, ora però non è un afflitto da malattia, è a tutti gli effetti un untore. Tre mesi di pena erogata per ricettazione sono poca cosa rispetto a tanto danno.