Nostalgia di Prodi? Purchè non sia dell’Unione

Pubblicato il 19 Marzo 2009 - 12:51| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Viviamo, o crediamo di vivere, in un “eterno presente”. Abbiamo abolito il futuro, o almeno lo abbiamo ridotto al massimo a dopo domani. E cancellato il passato di cui qualsiasi memoria è improba e non praticata fatica. Questa sopravvenuta condizione umana è cosa più grossa e vasta della politica. Ma in politica se ne trovano marcate segni, anzi clamorosi esempi.

Il più recente e macroscopico riguarda quella “cosa” appena ieri chiamata centro sinistra. Non è passato nemmeno un anno da quando ha perso non solo le elezioni ma la stessa speranza di vincerle, e già ha dimenticato, cancellato, rimosso il perchè. Il governo Prodi, quello che andava da Mastella a Pecoraro Scanio, è stato non il peggiore ma il più impotente della storia italiana. Non poteva avere programma, e soprattutto azione economica o sui diritti civili o sulla politica estera o sulla riforma dello Stato perchè conteneva dentro di sè il corpo e l’anticorpo, l’antodoto e il veleno, la materia e l’antimateria.

La sinistra cosiddetta radicale in realtà svolgeva una funzione convinta ed efficace di conservazione dell’esistente. La sinistra che si vuole riformista era incerta di se stessa e comunque costretta alla mediazione, cioè allo sminuzzamento e rinvio delle riforme. Indipendentemente dalla sua guida, lo stesso Prodi, il governo era un governo di blocco, non storico ma sociale. Cioè non un blocco, un’alleanza di interessi e ceti. Ma un posto di blocco, pluralisticamente vigilato, ad ogni azione di governo.

Su questa barriera si estenuava ed evaporava il consenso: governare così era impossibile e impresentabile era la riproposizione al paese di un altro governo con gli stessi connotati. Ora una debolissima ed epidermica memoria di cronaca e non di storia torna a raccontare che quel governo cadde perchè Mastella non si fidava più. E una ricostruzione che inverte i rapporti tra causa ed effetto attribuisce alla scelta e all’annuncio di Veltroni di voler misurare nel paese le chanches di una sinistra riformista la responsabilità della sconfitta. Non andò così: fu l’impossibilità, la disperazione quotidiana indotta e mostrata dal centro sinistra di allora a causare la scelta del Pd di presentarsi da solo alle elezioni.

Alternativa politicamente degna non c’era e forse andava evitata anche l’alleanza con Di Pietro. La cosiddetta “Unione” che oggi viene rimpianta è proprio quel che è stato bocciato dagli elettori nel 2008. Bocciato in maniera tale da indurre chi volesse legare in maniera pur minima passato e futuro. E invece qualcuno ci ripensa se non proprio ci riprova. A mettere in qualche modo e insieme, in qualche somma e alleanza tutto e tutti quello e quelli che sono vicini solo per essere lontani da Berlusconi. La conta è stata fatta più volte e, qualora fosse rifatta, ancora direbbe: minoranza. Con l’aggravante della rinuncia, dell’abdicazione a un compito che per la sinistra sembra davvero troppo gravoso: costruire nel paese un riformismo non populista e non autoritario che abbia consenso. Questa ricorrente fatica al riformismo induce il dubbio maligno che la missione riformista possa addirittura essere contro natura della sinistra italiana.

Missione che viene sostituita da uno strano mix in cui si impastano la voglia di improbabili alleanze tra un partito di centro non berlusconiano da formare intorno all’Udc con qualche pezzo di Pd, più un Pd che recupera qualche pezzo della sinistra oggi ruotante senza orbita precisa, e, alla bisogna elettorale, sia di Pietro che l’ennesima reincarnazione di quel che resta di Rifondazione. Il lievito dovrebbe essere la nostalgia per Prodi “l’unico che sconfisse due volte Berlusconi”. Prodi che in realtà merita di meglio: l’unico che a sinistra tentò di governare il paese ma la sinistra glielo rese impossibile.