Rigopiano: Vermicino a lieto fine. Chi ha salvato quei bambini già morti

di Lucio Fero
Pubblicato il 21 Gennaio 2017 - 14:30 OLTRE 6 MESI FA
Rigopiano: Vermicino a lieto fine. Chi ha salvato quei bambini già morti

Rigopiano: Vermicino a lieto fine. Chi ha salvato quei bambini già morti

ROMA – Rigopiano, l’albergo, quel che ne resta, una macchia bianco sporco in tutti i filmati e video. E sulla protuberanza, sulla micro collinetta formata dall’impasto neve e cemento, ghiaccio e legno, uomini con tute di tutti i colori che si muovono, scavano, si fermano, ascoltano, riprendono a muoversi. Questo è quel che si vede, un indistinto in cui sembra non accada nulla, quasi una scenografia fissa nei notiziari televisivi e nelle immagini sugli smartphone.

Poi, da un buco grigio sporco, una piccola maglia di azzurro. E’ la giacca a vento di Edoardo, anzi è Edoardo tirato su, tirato via dalla tomba dei cunicoli franati, tirato via dal buio, dall’oscurità, dal gelo. Tirato via dalla morte, la morte che ha atteso in anticamera due giorni pieni. Attendeva di prendersi la vita di Edoardo e degli altri bambini, era lì, aspettava l’ultimo suo passo, inevitabile, scontato. Era sicura di farcela la morte. L’hanno cacciata via, sconfitta a casa sua, le hanno tolto i bambini alla morte. Sono stati quelli su cui troppe cronache, troppe parole fuori posto, troppa gente che parla senza sapere, senza pensare, troppo odio a prescindere hanno riversato dubbi e sospetti.

Un paese, una pubblica opinione, gente che non fosse di suo incattivita, inacidita, irrimediabilmente persa anche a moti dell’animo che siano fiele e livore, un paese ancora sano di mente e di cuore esploderebbe di gioia collettiva alla scena di quel bambino che rinasce tra le braccia di chi lo tira via dalla morte. In un paese sano di mente e di cuore sarebbe stata festa da reciprocamente scambiarsi, dio perdoni l’accostamento come quando si vince un Mondiale di calcio.

In un paese ancora sano di mente e di cuore, un groppo alla gola avrebbe accomunato mamme e papà, tutti. Un groppo e anche una lacrima perché commuoversi è civile. Un groppo alla gola, un groppo felice. Tutti e basta a darsi idealmente il “cinque” in una comunità ancora civile e ancora di buoni, sì di buoni, sentimenti.

La scena del bambino dal giacconcino azzurro che riemerge dal pozzo della morte avrebbe ricordato ad una comunità, ad una nazione ancora capace di volersi bene la grande sconfitta della vita subita 36 anni: Vermicino. Alfredino Rampi non ce la fece a esser tirato su, Edoardo ce l’ha fatta. Che suonino a festa le campane del villaggio, che sia festa vera e generale. Non in piazza, non in tv. Festa vera nei cuori, nell’animo. Di tutti. Festa e basta.

Non è andata così in questo paese, in questa comunità che sempre più si precipita da sola nel pozzo del fai e pensa del prossimo tuo tutto quello che non faresti e non penseresti mai di te stesso. Rigopiano Vermicino a lieto fine 36 anni dopo è stato affogato, diluito, sporcato, avvelenato dall’incapacità di gioire per un bambino salvato se a salvarlo sono gli “altri”, gli avversari politici. E perfino dalla incapacità a provare gioia se il bambino salvato non è il tuo, se i salvati non sono della tua famiglia.

Leggete Francesco Merlo su La Repubblica a proposito degli “sciacalli” o Giovanni Orsina su La Stampa a proposito di questo fondo d’odio della cosiddetta gente spacciato e ingiustamente nobilitato a “rabbia”, rabbia sociale. Leggete questi due, non ne troverete molti altri che hanno la vista e il coraggio per vedere e scrivere quel che c’è in fondo all’anima di una comunità forse già persa a se stessa.

E forte, fortissima anche se inconsapevole spesso, è la responsabilità dei notiziari e chi li fa. “Le attese che sono sempre abbandoni” lo scrive Merlo ma è un canone di ogni notiziario. “L’obiettivo del trovare un colpevole a prescindere” lo scrive Orsina ed è un altro condiviso e premiato comandamento…professionale addirittura.

L’incapacità, l’insensibilità, il crampo, questo sì professionale, che impediscono di raccontare una delle maggiori storie degli ultimi decenni e cioè il sopravvivere due giorni al buio, al gelo, con forse poca aria, sepolti vivi e soprattutto affondando sempre più nel dubbio, poi nella paura e poi quasi nella certezza che non ti troveranno…E sopra, sopra quella che è già una tomba, uomini in carne e ossa, la vita vera di gente non di cartone o di tweet che cerca e  trova la vita.

Invece di narrare quelle ore e minuti, i minuti e le ore di quelle vite di sotto e di sopra, al posto di questo vuoto di racconto la ricerca spasmodica di un qualche scatola nera p brogliaccio di viaggio della turbina che non era partita alle 15,00 del giorno della valanga. E la registrazione e messa in onda e stampa “obiettiva e completa” delle bugie e falsità tipo “valanga ampiamente prevista nei giorni precedenti”. Prima di mettere in onda e stampa un occhio ai bollettini almeno, dando per troppo impegnativo il soffermarsi sulla circostanza che il terremoto non era “ampiamente previsto”.

Dicono che gli editori, alcuni grandi editori, siano convinti della inutilità e inopportunità della “intermediazione giornalistica” e si vadano attrezzando di conseguenza. Già fatto. Una storia enorme, fantastica, meravigliosa, una storia di vita e di morte che si strappano di mano bambini qui su questa terra e davanti ai nostri in occhi, luce contro buio come fossimo in teatro, ogni paura ancestrale, ogni sentimento e sentire umano in scena ed è vera vita…tutto questo non ha trovato narratori.

Ci siamo già tutti dimessi, arresi. Se lo “sciacallo” è ormai un’abitudine, se “ogni attesa è un abbandono” è anche colpa nostra. Quando, come colpa nostra? Partendo dal meno, ad esempio ad ogni “qui è completamente isolato” smentito dall’incontrovertibile fatto che sei lì, nel luogo “isolato da tutto”, che hai raggiunto con la tua troupe.