Terremoto-Rigopiano: orgoglio, vergogna e vaniloquio

di Lucio Fero
Pubblicato il 25 Gennaio 2017 - 14:46 OLTRE 6 MESI FA
Terremoto-Rigopiano: orgoglio, vergogna e vaniloquio

Terremoto-Rigopiano: orgoglio, vergogna e vaniloquio (foto Ansa)

ROMA – Terremoto in Centro Italia, anzi tre, quattro terremoti in fila in pochi mesi sull’osso dell’Appennino. E Rigopiano, l’albergo dei sepolti vivi dalla valanga indotta dalle scosse, per alcuni poi il ritorno alla vita, per altri di quanti erano in quell’albergo una tomba di ghiaccio. Intorno a queste due parole, terremoto e Rigopiano, l’orgoglio mancato, mancato da un sentir comune che ha divorziato con crescente gioia dalla realtà, la falsa vergogna un centesimo la tonnellata e quella dovuta e vera a peso più dell’oro, il vaniloquio esibito come lingua ufficiale della comunicazione/informazione.

L’orgoglio mancato. Fin dalle scosse dell’agosto scorso i soccorsi sono stati tempestivi, massicci, efficienti, competenti. Come non mai nella storia italiana di fronte alle catastrofi naturali: Fin dall’agosto scorso e ancora nei giorni scorsi a Rigopiano e ancora nell’Abruzzo e nelle Marche e ovunque la grande neve e il sisma si sono dati una mano nel ferire e tormentare le popolazioni. Undicimila uomini impegnati nei soccorsi, in tutte le missioni e con indosso tutte le divise. Una capacità di risposta alla calamità a livello se non superiore dei grandi paesi civilmente più organizzati.

Ma il sentir comune non ha retto, non ce l’ha fatta a digerire questa realtà. L’orgoglio per il lavoro fino allo sfinimento, la disponibilità senza limiti, la presenza massiccia tempestiva e competente dei soccorsi non si è mai acceso nel sentir comune. La parola “orgoglio” è stata lasciata al presidente del Consiglio, al capo del governo, è stata fatta diventare una cosa del “Palazzo”. Il sentir comune si è volutamente amputato, inibito la possibilità stessa di provare orgoglio come comunità. Praticando appunto con determinazione e coerenza un divorzio, anzi un ripudio dalla realtà. Nella realtà mai popolazioni italiane così assistite e soccorse, nel sentir comune sempre e comunque Stato e istituzioni inadempienti.

Il punto di maggior dissociazione e anche di minor rispettabilità, etica rispettabilità di questo sentir di gente è stato il giorno, il momento dei morti nell’elicottero dei soccorsi. Non sono bastati i cadaveri di Walter Bucci; Davide De Carolis, Giuseppe Serpetti, Mario Matrella, Gianmarco Zavoli, persone che hanno letteralmente dato la vita per portare soccorsi, neanche quei cadaveri sono stai sufficienti per spegnere almeno nell’omaggio ai caduti il livore a prescindere. Ma la più imponente sconfitta nazionale sta proprio nell’essere stati complessivamente, collettivamente incapaci di provare orgoglio per il lavoro e l’opera di Vigili del Fuoco, Protezione Civile, Soccorso Alpino, Carabinieri…Incapacità di essere orgogliosi di se stessi felicemente scelta in nome del diritto ad essere eternamente malmostosi. Una comunità siffatta è già una comunità con seri disturbi nel comportamento.

La vergogna, quella falsa e irreale. Gridata ad ogni passo e gridata ad ognuno. Vergogna! Non hanno previsto il punto e l’ora precisa della valanga. Vergogna! Non hanno fatto volare gli elicotteri di notte! Vergogna! Non hanno comprato turbine a decine. E’ vergogna il grido ignorante e insolente di chi sa poco o nulla ma pretende insegnare tutto, ammonire, giudicare su ogni cosa. Il grido di gente senza senno e pudore. Vergogna! E’ il grido dei senza vergogna. Legioni, torme, moltitudini.

Rarissima, pietra e metallo introvabili la vergogna per l’esporre in ogni luogo e per ogni dove questo insolente e insultante non sapere, nessuna vergogna per il continuo processo e il quotidiano insulto a chi lavora da settimane quasi senza pause per andare a soccorrere.

E infine il vaniloquio, la lingua ufficiale dell’informazione-comunicazione. Terremoto-Rigopiano, il giornalismo purtroppo alla frutta. Non è riuscito a vedere che i soccorsi erano all’altezza di un paese civile e organizzato. Ed era una notizia perché mai così in Italia prima era stato. Oppure, se ha visto quel che era nei fatti, il giornalismo se n’è spaurito. Troppo contro corrente dirlo, raccontarlo quel che si vedeva, meglio stare sul canone abituale del soccorso mancato o tardivo. Così vaniloquio: il tragico susseguirsi, la drammatica storia di una telefonata di allarme che si intreccia nel tempo con la notizia del crollo di una stalla e fa catena con un direttore dell’albergo che è non nell’hotel ma che ha avuto e dà notizia che lì per ora non è crollato nulla, questo maledetto equivoco, questo concatenarsi di morte viene raccontato e offerto come la prova provata delle sordità e inettitudine. Fino al grido finale: al telefono rispondeva un’esperta di contabilità! Capito? Non la prova, l’ovvia circostanza che quel giorno alla Protezione Civile lavoravano tutti, ma la prova della incompetenza messa lì a far male al cittadino.

E così un padre esasperato dal dolore oltre ogni limite, un padre che delira “uccisi dalle autorità, messi lì davanti al camino come carne da macello” il vaniloquio lo presenta come una testimonianza, come un’accusa. E ancora e ancora: il disagio per l’anziana bloccata e impaurita in casa narrato come “abbandono” e l’ipotesi di scosse di magnitudo sette che il vaniloquio promuove ad annuncio di scosse magnitudo sette…

Una società incapace di provare orgoglio per il meglio di se stessa, una pubblica opinione militante e dominante che rumina fiele e solo fiele e il resto della gente che sta tra il tace e l’acconsente, tutto il circuito dell’informazione-comunicazione, dai social network fino alle testate giornalistiche passando per ogni televisione, che perde il senso di sé e della propria utilità sociale sguazzando nel vaniloquio mentre crede di bagnarsi nella cronaca. Un panorama di danni, un paesi di danneggiati, gravemente danneggiati. Ma non dal terremoto e neanche dalla valanga e neanche…da altro che non sia se stessi.