ROMA – Wisconsin Usa, le “teste di formaggio” perché qui la grande industria casearia e Pennsylvania e in generale tutta la Rustbelt, la ex cintura delle acciaierie americane ora in disuso. Michigan perfino. Qui gli operai (non solo i bianchi) hanno votato Trump, qui dove sempre o quasi avevano vinto i democratici. Il ceto operaio americano ha saltato il fosso ed ha votato dall’altra parte.
Sorpresa, sgomento, inaspettata soddisfazione? Tutte reazioni puntualmente registrate. Ma tutte reazioni esagerate. Non è la prima volta nella storia recente e anche meno recente, negli Usa e anche in ogni altro continente che gli operai votano a destra, molto a destra, anzi votano decisamente “nero”.
Si potrebbe cominciare con il rapporto di interessi che lega fasci di plebe romana con la parte più reazionaria del Senato sia sotto la Repubblica che durante l’Impero. Un salto di molti secoli ed eccola ancora lì la plebe contadina a far fuori i trecento giovani e forti di Pisacane all’alba del Risorgimento e appena un po’ prima i “guaglioni della fede” che sterminavano (non è un modo di dire) guidati dal Cardinale la Rivoluzione democratica napoletana, i suoi corpi e le sue menti. Ai contadini e agli arruolati entusiasti sanfedisti fregava men che nulla dell’Italia unita, del progresso, delle scienze e delle libertà. Loro tenevano alla “roba” e solo a quella e temevano questi “dottori” interrompessero il flusso di “roba” appunto che il regime monarchico feudale più o meno garantiva.
Ma era plebe, la classe operaia era di là da venire…Vero, quando però venne la classe operaia come soggetto politico lavorò e abitò sempre a sinistra. Ma come soggetto elettorale si concesse e si concede spesso e volentieri di votare dall’altra parte. Furono milioni gli operai, sì proprio gli operai, che in elezioni relativamente libere votarono per il partito nazionalsocialista prima che questo diventasse dittatura di Hitler. Meno operai in proporzione e in assoluto c’erano nell’elettorato di Mussolini, ma c’erano, eccome se c’erano.
Venendo ai giorni nostri e avvicinando fenomeni elettorali dissimili ma coerenti tra loro, sono i ceti operai della cosiddetta Padania i primi a votare per la Lega allora di Bossi e oggi per M5S di Grillo.
Certo, è vero che nella storia elettorale dell’Occidente ampi e maggioritari strati di elettorato operaio hanno sostenuto con determinazione le politiche e i governi e i partiti che potremmo definire alla grossa social democratici. Ma sempre e praticamente solo quando l’incremento delle risorse a disposizione consentiva a questi partiti una redistribuzione in quota favorevole ai ceti operai delle risorse stesse.
Quando questa condizione viene a mancare, spesso e volentieri il voto operaio da “rosso” ama farsi “nero”. Anche stavolta, senza sorpresa. Anche se stavolta è un po’ più complicato come è andata. Negli Usa gli otto anni della presidenza Obama hanno creato 15 milioni di posti di lavoro dopo la grande desertificazione dell’occupazione 2007/2008. Non sono i posti di lavoro che mancano, non sono i disoccupati disperati che hanno votato Trump. Quel che è rimasta più o meno invariata è la massa salariale, insomma chi un lavoro ce l’ha o l’ha ritrovato anche grazie alle politiche di Obama guadagna meno di prima. E trova questo intollerabile e cerca, vuole un colpevole di ciò che non tollera e perciò vota Trump. Non per sbaglio o abbaglio ma per calcolo e istinto (lui mi dice riavrò lo stipendio di prima togliendolo a giapponese o cinese e quindi io lo voto).
E’ una forte motivazione di voto in fondo non dissimile, anzi quasi gemella con quella che porta lavoratori dipendenti, operai italiani in prima fila nel voto a che garantisce salario di cittadinanza (lo avrai, lo pagherà qualcuno della casta). E’ una forte motivazione di voto quasi gemella anche di quella che porta tantissimi operai francesi a votare Front National e la Le Pen (mi ridanno il salario e la protezione sociale di prima e anzi di più e lo fanno pagare agli arabi o ai polacchi).
Motivazione di voto su base sindacal corporativa e ideologia a sostegno (nazionalismo e protezionismo) non sono alieni al voto operaio. Tutt’altro, sono una costante tentazione e ricorrente scelta. Negli Usa è ancora meno sorprendente considerando la storia e le caratteristiche del movimento operaio americano. Mai internazionalista, men che mai tentato da ipotesi di egemonia politica interna in nome e in cerca di un qualche interesse generale.
Il movimento operaio americano è sempre stato soprattutto se non solo un sindacato. Ostile ai commerci internazionali, ostile alla circolazione libera di uomini e merci. Protezionista delle fabbriche e delle produzioni interne ad ogni costo e con ogni mezzo. Ed anche ostile ad ambientalismo o ad ogni altro limite, ostacolo e problema all’industria nazionale. Non c’ è voluto molto, non è stato poi gran passo arrivare a votare per il protezionista tutto carbone e petrolio Donald Trump.
Wisconsin, Renania, Provenza, Padania…spesso (e volentieri) gli operai votano “nero” e l’increbile Pier Luigi Bersani dice che Bernie Sanders candidato al posto di Hillary avrebbe vinto e sarebbe presidente Usa. A parte la non indifferente circostanza che Sanders ha fatto campagna per Hillary dopo aver perso le primarie (Bersani invece per non sbagliarsi fa campagna costante e quotidiana contro Renzi), l’incredibile Bersani continua nel miraggio/allucinazione di una alleanza di governo naturale e felice con M5S attraverso quei milioni di elettori lavoratori dipendenti appunto che oggi votano o M5S (ieri Lega, l’altro ieri magari Ds). E non riesce a vedere che le cose di Sanders che piacevano agli operai americani erano quelle sole quelle identiche alle parole di Trump.