Berlusconi & Fini, Bersani & Franceschini: le differenze che fanno la politica italiana

di Marco Benedetto
Pubblicato il 9 Settembre 2009 - 20:15| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Un brutto colpo che Silvio Berlusconi ha dato alla democrazia in Italia è la legge elettorale. Ha ha messo nel frullatore Italia mussoliniana, Russia Sovietica e un po’ di centralismo napoleonico e ha prodotto l’attuale sistema elettorale dove i partiti decidono su tutto, i candidati sono irrilevanti e  le liste sono fatte da poche persone, nel chiuso di una stanza, a Roma, naturalmente.

Il sistema va bene a tutti e infatti la sinistra vi si è subito felicemente adeguata, utilizzandolo anche per i suoi regolamenti di conti interni, affrancata dal dovere di rendere conto ai suoi elettori, non rendendosi conto nessuno che quel che è bene per la maggioranza di destra possa essere male per la sinistra.

A destra c’è un capo indiscusso, che ha testa, soldi, coraggio, spregiudicatezza e anche qualche rete tv, che sa gestire il potere con coerenza da Cominform; c’erano un partito guida, Forza Italia, e uno inesorabilmente subalterno, l’ex Msi poi An che oggi è stato inglobato dal primo, nel Pdl, con una fusione per incorporazione da manuale aziendale.

A sinistra ci sono gli eredi di due partiti, il Pci e la Dc (un pezzo) che per mezzo secolo si sono fatti una guerra spietata e assoluta, metafisica; in ciascuna delle due componenti del Pd c’è la convinzione, comprensibile e giustificata, che lì sta la vera via, mentre gli altri…

I partiti sono organizzazioni complesse, con una loro anima, una loro individualità, una loro macchina fatta di uomini e donne, uffici, arredi, denaro, debiti: le fusioni alla pari non hanno mai funzionato, né in economia né fra Stati e, si vede in questo caso, anche in politica.

Le annessioni invece funzionano, perche eliminano fisicamente l’incorporata, a volte ne cancellano anche il marchio.

Berlusconi e Fini al congresso del Pdl. Il gatto ha preso il topo

Per questa ragione i fermenti dentro il Pdl non andranno molto distante. Gli ex camerati se ne stanno felici sotto la coda del biscione, che riscalda meglio della ormai spenta fiamma.

Fini parla da uomo di sinistra e dice anche delle cose giuste e non incompatibili con la matrice socialista del fascismo. Ma non è l’ideologia a separare Fini dai suoi, sono l’opportunità elettorale e la convenienza politica. Ormai An non esiste più, il partito è finito al congresso di fondazione a Roma nel marzo 2009.

Il calderone ideologico messo sul fuoco da Berlusconi, con il collante dell’anticomunismo postumo fornisce alimento per tutti gli ex di An, ben contenti di rigenerarsi: il segno lo dà il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il quale è di sicuro in buona fede quando dice di non essere stato fascista.

Per questa ragione, a sinistra, la situazione va vista con preoccupazione, a prescindere dal giudizio che si può dare degli uomini. Anche la matrice comunista di una parte del Pd è stata obliterata e con gioia, dagli stessi ex Pci, ma, a differenza di quel che è successo a destra, non è stata annullata l’identità del partito che l’aveva rappresentata. Non aveva ragione per farlo, aveva piena dignità di cittadinanza repubblicana, alla nascita dell’Italia di oggi ha contribuito, magari contro voglia ma l’ha fatto, e l’orgoglio e l’appartenenza sono rimasti e con ragione.

Qui sta però il tormento della sinistra, perché nessuna delle due componenti riesce a trovare una sola valida ragione per dissolversi nell’altra, a differenza della destra, dove è stato tutto chiaro sempre.

Le manovre che stanno conducendo i due candidati principali, Franceschini e Bersani, anche se poi ovviamente le smentiscono, sembrano ispirate alla consapevolezza del problema e alla esigenza di conservare l’unità del partito. Se costituirlo può essere stato un errore, tornare indietro sarebbe la morte, non solo del partito, ma della democrazia.